Corriere della Sera, 21 agosto 2015
Egitto, i miliziani sfidano Abdel Fattah Al Sisi nella sua capitale. Un’autobomba è esplosa davanti al palazzo della Sicurezza interna. L’attentato è stato rivendicato sia dai Black-Bloc, un gruppo emerso due anni fa per «opporsi al potere islamico dei Fratelli Musulmani», che dall’Isis. Anche il Cairo diventa sempre più zona di battaglia. Perché gli estremisti vogliono dimostrare che Al Sisi non è in grado di mantenere quello che promette
Domenica ha approvato con una firma i cinquantaquattro articoli della legge anti-terrorismo. Che – proclama il generale diventato presidente – fermerà «gli attacchi dei militanti islamici e la diffusione della loro ideologia». Ieri un’autobomba è esplosa davanti al palazzo della Sicurezza interna, 29 feriti, tra loro soprattutto gli agenti che a quegli attentatori dovrebbero dare la caccia.
I miliziani sfidano Abdel Fattah Al Sisi nella sua capitale, la prima linea resta tra le montagne del Sinai ma anche il Cairo diventa sempre di più zona di battaglia. Perché gli estremisti vogliono dimostrare che il leader non è in grado di mantenere quello che promette: l’ordine e la stabilità per permettere la crescita economica del Paese. I consiglieri del presidente ricordano bene che la rivolta del 2011 contro Hosni Mubarak è scoppiata quando la disoccupazione era salita al livello più alto da dieci anni.
Questa volta i primi a rivendicare la bomba sono stati i militanti del Black Bloc, un gruppo emerso due anni fa per «opporsi al potere islamico dei Fratelli Musulmani», avevano annunciato i suoi fondatori. Sono giovani, ultrà delle squadre di calcio, senza legami con i movimenti no global malgrado lo stesso nome, hanno partecipato alle manifestazioni che hanno portato alla deposizione di Mohammed Morsi, uno dei capi della Fratellanza eletto presidente nel primo voto dopo la caduta di Mubarak.
Poche ore dopo su Internet è apparso anche il messaggio con il simbolo dello Stato Islamico-Egitto (lo stesso dell’attentato al consolato italiano) che dichiara di aver voluto vendicare «i nostri fratelli e i martiri musulmani. Tutti coloro le cui mani si sono macchiate del sangue dei mujaheddin dovranno aspettarsi il peggio, il loro turno arriverà». Il riferimento sembra essere ai sei uomini impiccati dopo la condanna a morte decisa da un tribunale militare con l’accusa di far parte del gruppo Ansar Bayt Al Maqdis. È l’organizzazione che spadroneggia nel Sinai e lo scorso novembre ha giurato lealtà al Califfato di Abu Bakr Al Baghdadi.
La nuova legge anti-terrorismo è stata criticata da Human Rights Watch e in un editoriale molto duro dal Washington Post. «Passo dopo passo – scrive il quotidiano americano – Sisi ha restaurato e superato la macchina della repressione instaurata da Mubarak». Tra le altre misure punitive, le norme proteggono le forze di sicurezza da qualunque rischio di essere perseguite per il loro operato e definiscono le sanzioni per chi pubblica «false notizie», che significa qualunque informazione diversa da quella decisa e diffusa dal ministero della Difesa.
Il Washington Post fa notare che la legge – «è sembrato uno scherzo di cattivo gusto» – è stata approvata poche settimane dopo la visita di John Kerry, il segretario di Stato americano, che aveva dichiarato «sono sicuro che l’Egitto abbia tutte le buone ragioni per garantire i diritti fondamentali dei suoi cittadini». In questi mesi Kerry e il presidente Barack Obama hanno rafforzato i legami con Sisi che è considerato un alleato nella lotta ai fondamentalisti dello Stato Islamico. Il presidente egiziano sembra mettere in concorrenza gli Stati Uniti e la Russia per chi gli offra più sostegno e aiuti economici: settimana prossima incontra Vladimir Putin a Mosca, dopo che il leader russo è stato al Cairo in febbraio, la prima visita in un decennio.