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 2015  agosto 21 Venerdì calendario

La crociata di Netanyahu contro l’intesa nucleare può diventare una catastrofe per Obama. È partita una campagna di propaganda milionaria che sta mettendo in difficoltà l’intera comunità ebraica americana, istintivamente perplessa riguardo all’accordo con l’Iran

«Concittadini americani, contattate i vostri rappresentanti al Congresso», invitava in televisione la settimana scorsa Barack Obama. Com’è tradizione nella democrazia americana, quando il Campidoglio chiude per ferie, deputati e senatori tornano nel loro collegio a incontrare gli elettori. E a questi ultimi, il presidente chiede che esortino i loro rappresentanti a sostenere l’accordo sul nucleare iraniano. Il Congresso vota entro il 17 settembre.
«Tutti i Paesi del mondo sono a favore, eccetto Israele»: è la controffensiva di Obama alla dura offensiva di Bibi Netanyahu. Per il primo ministro israeliano la fine di quel compromesso è diventata la cause célèbre della sua carriera politica. Ma ormai in gioco c’è molto di più del futuro di un premier. Prima della pausa estiva Ron Dermer, l’ambasciatore di Netanyahu (nel senso che a Washington rappresenta molto più lui degli interessi d’Israele) passava le sue giornate nei corridoi della Camera dei rappresentanti e del Senato, tentando di convincere i democratici a schierarsi contro l’accordo.
Qualche colpo importante gli è riuscito. Il senatore Chuck Schumer e il deputato Eliot Engel, entrambi di New York, hanno deciso di votare contro il loro partito e il loro presidente. Ma la missione di Netanyahu sembra quasi impossibile. A settembre il Congresso voterà l’accordo che sarà bocciato e al suo posto verrà proposta dalla maggioranza repubblicana una risoluzione per ripristinare le sanzioni economiche all’Iran. I repubblicani voteranno compatti. Il presidente porrà il veto, vanificato solo se un determinato numero di democratici si schiererà con i repubblicani: in Senato ne servono 13.
Nella battaglia Netanyahu ha arruolato l’intero partito repubblicano. Non è stato difficile, molti avevano espresso il loro dissenso prima di leggere l’accordo: in genere prima ancora che un accordo fosse raggiunto. A Washington, il compromesso concluso con l’Iran dai 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania e più Unione europea), non è una questione di politica estera ma uno strumento di lotta contro Obama. E ormai è parte della campagna presidenziale
del 2016.
Dopo i repubblicani, Netanyahu ha convinto l’Aipac, la più importante delle lobby politiche ebraiche, a schierarsi contro l’accordo. È partita una campagna di propaganda milionaria che sta mettendo in difficoltà l’intera comunità ebraica americana, istintivamente perplessa riguardo all’accordo, quando non contraria. Ora però è brutalmente spinta a confrontarsi fra due lealtà – per l’America e per Israele – che prima di questa battaglia non erano in contraddizione. O, come semplifica il giornale israeliano Ha’aretz, incitata «a combattere contro un accordo promosso dal presidente degli Stati Uniti per il quale la grande maggioranza degli ebrei
aveva votato».
Cosa accadrebbe se la campagna americana di Netanyahu raggiungesse il suo obiettivo? Difficilmente russi e cinesi ripristinerebbero le sanzioni economiche: Putin incomincerebbe subito a vendere armi all’Iran. Né rinuncerebbero all’accordo gli europei, constatando come Obama che tutti i Paesi del mondo, eccetto Israele e i conservatori americani e iraniani, sono a favore. Una vittoria di Netanyahu non sarebbe solo una catastrofe per Obama ma per la credibilità americana: molto peggio dei danni provocati dall’invasione dell’Iraq.
È riflettendo anche su questo che a favore dell’accordo si sono schierati 36 generali e ammiragli («il mezzo più efficace attualmente disponibile per impedire che l’Iran ottenga la bomba»), 29 fra i più importanti scienziati (un accordo «tecnicamente fondato, stringente e innovativo») e ora anche 26 ex leader delle comunità ebraiche americane («Per quanto imperfetto, è la migliore opzione possibile»). Sono le stesse riflessioni che in Israele fa l’apparato di sicurezza: forze armate e intelligence, per i quali l’accordo con l’Iran «non è così male». A Netanyahu hanno chiesto di riesaminare il suo rifiuto a nuovi aiuti militari offerti dagli Stati Uniti. L’opinione pubblica è umanamente contraria al compromesso iraniano: pensa a Hezbollah e Hamas finanziati da Teheran. I politici, anche i laburisti, assecondano. Mancano leader capaci di offrire sfide e visioni al Paese come Moshe Dayan e Ezer Weizman per la pace con l’Egitto (l’artefice non fu Begin), Shimon Peres per gli accordi di Oslo, Ariel Sharon per la chiusura delle colonie di Gaza e in Cisgiordania.
Tenendo conto dell’orientamento popolare, Tzipi Livni non ha chiesto che Netanyahu spieghi alla commissione Esteri della Knesset perché ha montato una simile crociata, ma riferisca sulle conseguenze. Se Bibi vince, sarà umiliato il più importante alleato e fonte primaria della sicurezza dello stato ebraico, e a Israele resterà l’appoggio dei repubblicani che forse non vinceranno le elezioni presidenziali. Se Bibi perde, resta isolato e umiliato solo Israele. In ogni caso, non sembra un affare.