la Repubblica, 21 agosto 2015
Sbarre alle finestre e agenti senza divisa: «Ma qui le madri restano detenute». Nell’istituto a custodia attenuata (Icam) che potrebbe essere scelto per ospitare Martina Levato e il piccolo. «Non raccontate questo posto come un paradiso, perché non lo è: qui diritti e restrizioni uguali al carcere»
La premessa è, in realtà, la richiesta che Marianna Grimaldi, coordinatrice dell’Icam, fa prima che il doppio cancello si richiuda: «Non raccontate questo posto come un paradiso, perché non lo è. Le donne qui dentro sono detenute come tutte le altre, con le stesse regole e le stesse restrizioni. Semplicemente, sono anche madri: e i figli non hanno colpa per quello che hanno commesso loro». Istituto a custodia attenuata: dal 2006, a Milano, è qui che scontano la pena le detenute con figli piccoli, ed è qui che potrebbe arrivare Martina Levato, giovane madre come la maggior parte delle nove detenute ospitate ora.
Nove mamme e otto minori: una di loro è incinta, partorirà a giorni. L’età massima dei bambini ospitati è stata portata a 10 anni, e questo significa bambini che vanno a scuola ma che ogni pomeriggio, invece di tornare in una casa, vengono riaccompagnati in via Macedonio Melloni, proprio di fronte a uno degli storici ospedali dei bambini milanesi, in quello che era, un tempo, il brefotrofio.
All’Icam le sbarre ci sono: più larghe di quelle delle finestre di un carcere, certo, ma ci sono. E ci sono le porte blindate, aperte e chiuse da Emidio, uno dei pochi agenti di custodia uomini, qui. Per lui, come per tutto il personale, niente divisa, ma maglietta e pantaloni comodi.
Ogni volta che uno dei bambini vuole uscire nel giardino (recintato), deve suonare il citofono e aspettare che la porta di ferro si apra: ma per i piccoli che a metà agosto corrono fuori per giocare con l’acqua e il pallone, è la normalità, è l’unica casa che hanno avuto.
Con un esercito di figure femminili di riferimento che ha un grado (sovrintendente, agente) per le madri, ma che per loro sono solo Marianna, Simona, Carmela, Claudia.
«Ogni detenuta, qui dentro, deve avere come priorità la cura del suo bambino, e deve farlo come non ha mai fatto quando era fuori dal carcere», spiega la coordinatrice Marianna Grimaldi.
Dalle 7,30 alle 10 la vita è scandita dagli impegni legati ai bimbi, alla pulizia di tutti i locali, alla cucina e alle attività dei programmi riabilitativi. Non sono le mamme ma le volontarie a portare i figli a scuola o alle feste dei compagni di classe: il momento più rischioso, quello in cui per la prima volta vedono case vere e famiglie che non sono formate da collettivi di donne.
Anche il sonno è comune: le camere hanno tre letti grandi e tre piccoli, pareti colorate, disegni e giocattoli. Soltanto la camera delle puerpere – come la Levato – ha due letti e due culle: e pazienza se quando inizia a piangere un neonato l’altro lo segue. Qui tutti sono abituati a mettere al centro le esigenze dei bambini, dei figli di tutte: le nuove arrivate fanno spesso fatica ad accettare le regole, gli orari, l’impegno costante.
Ma a tutte viene ricordata la stessa cosa: «Non siamo qui per giudicarle, quello l’hanno già fatto in tribunale, ma per dare loro la possibilità di prendersi cura dei figli, imparando a essere madri», spiega Grimaldi. E non fa differenza il reato commesso: giovani rom condannate per furto – come la 25enne che qui vive con suo figlio di tre anni, mentre i più grandi sono affidati ai nonni – e italiane con diversi anni in più e storie che si vergognano anche a raccontare, ragazze con un compagno fuori ad aspettarle e una famiglia, altre che arrivano senza neanche una tutina di ricambio, tanto meno una prospettiva di vita. Non sarà un paradiso. Ma è una possibilità.