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 2015  agosto 20 Giovedì calendario

Le invisibili del calcio italiano. Si chiamano Carpi, Frosinone, Empoli, Sassuolo e Chievo, in tutto contano 200mila anime. Andare a perdere o a vincere uno scudetto lì rappresenterà un’esperienza dimenticata, non inedita perché legata a un tempo antico, quando ad esempio l’Inter cadeva a Mantova (1967) o la Juventus a Cesena (1977)

Le città invisibili del campionato sono cinque, talmente invisibili che è bellissimo guardarle. Si chiamano Carpi, Frosinone, Empoli, Sassuolo e Chievo, così invisibile quest’ultima da non essere nemmeno una città ma una borgata, l’enclave veronese che da tre lustri è ben piantata nella serie A come il palo nell’occhio di Polifemo: a dimostrazione che si è invisibili soprattutto per chi non vuole guardarci.
La magnifica anomalia della nuova serie A (ammesso che invece non siano anomali gli altri, i grandi spendaccioni) ha un quarto degli abitanti di Torino, più o meno 200 mila, dai 4.500 lillipuziani di Cèo, il quartiere appoggiato sull’Adige, ai 70 mila di Carpi. Le altre sono città medio-piccole da 40 mila a 50 mila anime, espressione di una provincia viva e attiva, tre al Nord (Emilia Romagna e Veneto) e due al Centro (Toscana e Lazio). Lì ci sono i soldi, a Sassuolo agisce addirittura il capo di Confindustria, Giorgio Squinzi, il quale peraltro non possiede reti televisive e non produce automobili ma additivi per malte e calcestruzzo.
Sebbene l’aristocrazia del campionato abbia speso quasi 400 milioni di euro sul mercato, indebitandosi a qualunque costo (clamoroso il caso di Thohir, che presta denaro al club di cui è presidente come se fosse una banca, chiedendo interessi del 9 per cento), c’è da chiedersi se una certa Italia, magari meno appariscente ma con più profonde radici, non sia meglio rappresentata, appunto, dalle cinque piccole che diventeranno lo snodo di non pochi destini: andare a perdere o a vincere uno scudetto a Carpi rappresenterà un’esperienza dimenticata, non inedita perché legata a un tempo antico, quando ad esempio l’Inter cadeva a Mantova (1967) o la Juventus a Cesena (1977). Oggi sembrava impossibile, come se potessero valere solo gli scontri diretti tra le grandi e il campionato fosse un palio tra tre o quattro contrade.
Bisognerà abituarsi anche ai giocatori invisibili, non solo alle loro città. Meglio cominciare a farsi girare nelle orecchie suoni e sillabe d’altri mondi, perché stavolta lo scudetto si può anche vincere o perdere inciampando o superando Mbakogu e Letizia, Gucher e Mpoku, Soddimo e Gagliolo. Stavolta le figurine da collezionare richiedono un po’ di immaginazione e bisognerà aggiornare anche la geografia, non solo quella delle province ma degli stadi, delle tangenziali, dei parcheggi, dei centri storici da scoprire e visitare: e magari, un giorno, il calcio diventerà davvero occasione di cultura e conoscenza, non solo migrazione di corpi urlanti e feroci.
Le cinque città invisibili sono state in serie A, finora, appena venticinque volte, anche se il merito è quasi tutto del Chievo (13 stagioni quasi consecutive) e dell’Empoli (10, in ordine sparso). Il Sassuolo è alla terza volta, dopo due salvezze che nessuno avrebbe immaginato, mentre Frosinone e Carpi debuttano, alla faccia di Lotito e di quelli che ne disprezzano valore commerciale, fascino televisivo e potere contrattuale. E se invece, per una volta, bastasse giocare bene?
Perché le cinque squadre invisibili si fanno vedere benissimo. Il loro gioco sa essere scintillante, diverso: non siamo alla retorica di Calimero, ma dentro territori in cui la fretta non è sovrana e c’è tempo per costruire. Qui, puntare sui giovani è una necessità prima ancora che una virtù. Nei contesti piccoli nessuno promette o pretende la luna, un allenatore non viene cacciato dopo un mese di esperimenti, il pubblico è più grato che schizzinoso. In simili contesti possono nascere e svilupparsi storie come quella dell’Empoli di Maurizio Sarri, modello calcistico che De Leurentiis vuole trasferire a Napoli, con molte incognite.
Le città invisibili provano infine a cancellare l’immagine della provincia laida dei trucchi, quel tessuto senza controlli nel quale si è sviluppato più facilmente il cancro del malaffare. È successo in molte categorie ma di più nelle serie inferiori, tra le pieghe di un sistema assente e lontano. Però è bello pensare che quelle non fossero regole ma eccezioni, e che le piccole realtà virtuose siano più numerose di quelle sporche.
Ed è anche una storia di uomini, di insegnamenti. Il tecnico che ha costruito il Carpi si chiama Fabrizio Castori, ed è arrivato per la prima volta in serie A (a 61 anni) più o meno com’era accaduto a Sarri. Insolito, in un’epoca di tecnici mandati troppo spesso al debutto o allo sbaraglio, senza esperienza. Poi però si scopre che il più giovane di tutti è Roberto Stellone del Frosinone: lì smise con il calcio giocato dopo una carriera più che degna tra Napoli, Reggina, Genoa e Torino, e lì ha cominciato ad allenare. Stellone ha solo 38 anni, per niente invisibili.