Un libro in gocce, 8 agosto 2014
Ritratto dello statale del primo decennio unitario
Torino, fine marzo del 1861. Il Regno d’Italia è stato appena proclamato, Vittorio Emanuele è il primo re dell’Italia unita. Di lì a poco il conte di Cavour, che al momento dell’unificazione ha rassegnato le dimissioni del gabinetto, presenterà al Parlamento il suo nuovo ministero. Morirà, all’improvviso, il 6 giugno di quello stesso anno.
Una società borghese, al maschile ma anche al femminile, sobriamente elegante, mediamente colta, curiosa di novità, affolla i lunghi porticati del centro, si spinge sino al Po, sciama davanti Palazzo Carignano o nel grande spazio di Palazzo Reale, popola vociante i caffè di piazza San Carlo, forse segue avidamente sulla «Gazzetta del popolo» o sull’«Opinione» l’epopea ancora recente del Risorgimento. Se si presta attenzione non è difficile distinguervi – inconfondibili – gli impiegati del Governo, quelli che neppure due anni dopo la fortunata commedia in dialetto piemontese di Vittorio Bersezio (debutto al Teatro Alfieri, 4 aprile 1863) racchiuderà nel tipo universale del travet: atteggiamento composto, quasi umile; postura lievemente ingobbita; sguardo sfuggente dietro le lenti spesse da miope, gli occhi affaticati dalle lunghe ore alla scrivania; abbigliamento modesto, uniforme, in grigio; toni della voce bassi, monotoni; opinioni per lo più moderate; fedeltà assoluta alle istituzioni monarchiche, senso spiccato della famiglia, della religione, dello Stato. È un ritratto proverbiale, come memorabili resteranno «le miserie» di Monsù Travet: la sua perenne tensione tra aspirazioni di escalation borghese e grama realtà di uno stipendio perennemente insufficiente, la dolorosa distanza che divide l’essere dall’apparire. Se si guarda con maggiore attenzione l’istantanea del 1861 non sarà difficile cogliervi i piccoli, quasi impercettibili segnali rivelatori di quelle persistenti «miserie»: l’austera finanziera, pure indossata con sussiegosa importanza, è forse lisa in più punti; il cilindro è probabilmente ammaccato e consunto; il gilè non è proprio all’ultima moda di Parigi; le scarpe, grosse, quasi alla contadina, non sono mai completamente lucide.
Spesso quell’impiegato parla un italiano misto al dialetto di Torino, un composto tra lessico familiare subalpino e vocabolario burocratico ante litteram; talvolta, specie se è un alto burocrate, scrive la sua corrispondenza personale in francese, la lingua del resto ancora adesso più congeniale alla corte, al Re, allo stesso Cavour. Gli impiegati del primo decennio sono per lo più piemontesi, con qualche timido innesto dalle province appena annesse del Centro-Nord. I meridionali dell’ex Regno dei Borboni difficilmente si trasferiscono a Torino. Alla fine di quel 1861 il ministro dei Lavori pubblici Miglietti dovrà ammettere alla Camera che dei suoi 108 dipendenti dell’amministrazione centrale solo 3 sono «napoletani». Dirà con rammarico:
Nel fare l’ordinamento del mio Ministero io ho contemplata la venuta di questi napoletani, che io desiderava, che chiamava, che pregava perché venissero, ed ho per questo lasciato vacante un posto di capo di divisione, ho lasciati vacanti due posti di capo sezione, ho lasciati vacanti ancora più altri posti, e ciò sempre nell’intendimento di nominare a questi posti impiegati napoletani (…). A quanti io ho fatta la proposta di venire impiegati al Ministero a Torino, tutti mi risposero: per carità, datemi un posto qualunque, ma a Napoli; datemi anche un posto inferiore a quello che ora occupo, ma in Napoli, poiché io assolutamente non posso andare a Torino.
Settentrionale, filo-sabaudo, tendenzialmente conservatore, il burocrate della nuova Italia è stato addestrato essenzialmente ad eseguire senza discutere. Reclutato senza particolari prove, è entrato negli uffici ministeriali come semplice «volontario», per un periodo di tirocinio gratuito più o meno lungo (al minimo due anni) nel quale ha soprattutto svolto la funzione ripetitiva del copista, assoggettandosi ad estenuanti turni di straordinario. Quindi ha potuto iniziare la lenta escalation nella scala gerarchica, dai gradini più bassi (l’applicato di 4a, 3a, 2a, 1a classe) a quelli intermedi (il segretario delle varie classi, poi il caposezione), a quelli più elevati (il capodivisione) sino – eventualmente – alle posizioni di vertice (il direttore generale, il segretario generale). Un sistema misto di promozioni, per anzianità e per merito, garantisce lo sviluppo della «carriera»: un passo dopo l’altro, man mano che si liberano i posti immediatamente superiori (il sistema è detto perciò «a ruoli chiusi»), senza mai salti imprevisti né accelerazioni eccessive: il futuro è scritto negli annuari e nei Calendari generali del Regno, i grandi libroni che gli impiegati consultano febbrilmente per conoscere in anticipo le vacanze dei posti da cui dipenderanno le eventuali promozioni.
Nessuna scuola di formazione, come invece nel quasi coevo modello francese (le grandes écoles), ma solo l’apprendimento «sul campo», attraverso il tirocinio pratico e l’imitazione pedissequa dei colleghi più anziani. La scala retributiva è cadenzata su quella gerarchica: ogni avanzamento di grado corrisponde ad un’elevazione nello stipendio, ogni grado o frazione di grado a un piccolo incremento nella paga. Un sistema di microincentivi (economici, ma più spesso morali, come sono gli encomi scritti e le onorificenze) interviene a incoraggiare le prestazioni. Rigorosissimi sono i controlli disciplinari, che si estendono ben oltre l’ufficio, sino ad investire in pieno la privacy del dipendente, la sua vita sociale, familiare, affettiva. Per essere ammesso agli impieghi ci vuole la dichiarazione favorevole del prefetto e quasi sempre anche quella del parroco, che attesti le virtù della famiglia di provenienza. Una volta assunti, le «note segrete», vergate di propria mano e in assoluta discrezione dai superiori sul fascicolo personale dell’impiegato, costituiscono la base delle eventuali future promozioni o dei lunghi «purgatori» in collocazioni disagevoli e sgradite. Parole chiave come «diligenza», «negligenza», «assiduità», «decoro», «obbedienza», «abnegazione» assumono nel vocabolario dell’amministrazione una posizione preminente. Il regime delle punizioni è severissimo, articolato in una casistica minuta che lascia intravedere le maglie di una repressione pronta, pervasiva, inesorabile. I doveri superano di gran lunga i diritti: gli uffici – sancisce già il Regolamento Cavour del 1853, atto fondativo del sistema amministrativo sabaudo, poi travasato senza soluzione di continuità in quello postunitario – sono aperti tutti i giorni, anche quelli festivi, sia pure in questo caso nell’orario ridotto 9-12. Un impiegato a turno dovrà assicurare la sua presenza durante una o più ore del giorno prima dell’entrata e dopo l’uscita dei colleghi. Spetta ai dipendenti accendere ogni mattina la grande stufa che assicura il riscaldamento, e tenere puliti i locali. Il lavoro straordinario, a totale discrezione dei capi, è la norma.