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 2015  agosto 19 Mercoledì calendario

Qualcuno salvi le tigri asiatiche. Indonesia, Malesia, Thailandia, Corea del Sud devono fronteggiare il “new normal” cinese spesso in uno stato di profonda fragilità. Export in calo, tensioni politiche interne e attentati terroristici hanno esacerbato i limiti del modello economico

Se il rallentamento della Cina complica le cose per Stati Uniti, Europa e Giappone, il primo impatto investe però le economie che più dipendono dal gigante asiatico, quelle nella sua orbita diretta, sulle quali pure si contava per riequilibrare le “responsabilità” della crescita globale. Il cambio di paradigma le avrebbe messe in difficoltà anche se le avesse trovate in salute, ma sia per fondamentali economici che per situazione politica, le ex tigri asiatiche devono fronteggiare il “new normal” cinese spesso in uno stato di profonda fragilità. Una decisa ripresa della domanda dagli Stati Uniti e dall’Europa diventerebbe allora un prezioso alleato.
Indonesia
A luglio, le esportazioni indonesiane sono crollate del 19,2% su base annua, trascinate al ribasso dal calo del 43% delle vendite di petrolio e gas, la prima voce dell’export del Paese. La flessione non è più una novità, visto che luglio passa agli archivi come il decimo mese di calo consecutivo. Anche le importazioni sono diminuite, addirittura del 28,4%, lasciando la Banca centrale con un problema in meno, dato che il Paese può così registrare il più ampio surplus commerciale dal dicembre del 2013.
Ma le buone notizie sono tutte qui: il motore dell’economia più grande del Sud-est asiatico gira già ai minimi dal 2009 (al 4,7% nel secondo trimestre) e la rupiah fluttua stabilmente a livelli che non si vedevano dalla crisi del 1998, dopo aver perso il 10,5% quest’anno. I cattivi risultati economici hanno costretto il presidente Joko Widodo, in crisi di consensi, a un rimpasto di governo.
Thailandia
Sulla già debole congiuntura thailandese precipita l’attentato di due giorni fa nel centro di Bangkok, «il più grave mai subito dal Paese», come lo ha definito il Governo. Il clima di insicurezza peserà sull’industria del turismo che vale quasi il 9% del Pil e che quest’anno brillava come una delle poche note positive. Nella prima metà del 2015, i visitatori dall’estero sono aumentati del 29,5% a quasi 15 milioni di persone. Ieri un secondo ordigno è esploso nella capitale, senza fare però fare vittime. Nei tre mesi tra aprile e giugno, l’economia è cresciuta al lento passo del 2,8% su base annua (dal 3% del primo trimestre) e la Banca centrale ha di nuovo abbassato le stime di crescita per l’anno in corso, portandole al 2,7-3,2% (dal 3-4%), ma in pochi sono pronti a scommettere su queste previsioni.
Malesia
L’economia del Paese paga dazio al velenoso clima politico e al calo dei prezzi delle materie prime, di cui la Malesia è un forte esportatore. Sul premier Najib Razak pesa il sospetto di essere coinvolto in uno scandalo finanziario, mentre il leader dell’opposizione è in carcere per sodomia. Il ringgit è in piena crisi: è la peggiore tra le valute emergenti e ha perso oltre il 20% sul dollaro, con un crollo che comincia a ricordare quello del 1998, quando Kuala Lumpur impose controlli dei capitali. La Banca centrale ha già bruciato 25 miliardi di dollari per difendere il cambio e le sue riserve valutarie sono ormai scese sotto i 100 miliardi di dollari, per la prima volta dal 2010. Nel secondo trimestre la crescita dovrebbe essersi fermata al 4,5%, dal 5,6% dei tre mesi precedenti.
Corea del Sud
Le esportazioni verso la Cina hanno rappresentato il 10,3% del Pil nel 2014. Un rallentamento di Pechino potrebbe allora costare caro, come sottolinea il Global growth outlook di Moody’s, che infatti prevede per il Paese una crescita del 2,5% nel 2015 e del 3% nel 2016, al di sotto delle stime di crescita potenziale elaborate dal Fondo monetario internazionale. Tanto più che anche la domanda interna segna il passo e sulle famiglie pesa un debito pari al 150% del reddito.
Vietnam
L’industria del Paese dipende in modo massiccio dalle importazioni di macchinari e componenti cinesi, tanto che il suo deficit commerciale con Pechino è arrivato a 19,3 miliardi di dollari nei primi sette mesi dell’anno. Un deprezzamento dello yuan potrebbe quindi essere un vantaggio, almeno sotto questo aspetto. Che tuttavia non può ignorare la volatilità che il nuovo corso della moneta cinese porta sui mercati valutari, tanto che la sua Banca centrale è stata la prima a reagire, raddoppiando la banda di oscillazione del dong. Nei primi sette mesi dell’anno, le esportazioni vietnamite hanno frenato la crescita al 9,5%, rispetto al 14% del luglio 2014. Ma l’economia sembra reggere bene l’urto e la Banca mondiale stima una crescita del 6,2% per il 2015.