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 2015  agosto 19 Mercoledì calendario

Ecco perché l’ennesimo fragoroso crollo della Borsa di Shanghai è passato praticamente inosservato in Europa e negli altri listini dei Paesi sviluppati. Ieri il problema riguardava i listini azionari, non il cambio e la sua svalutazione. Inoltre i dati di crescita oltre le attese in Cina, Usa e Gran Bretagna hanno riportato l’attenzione sulle banche centrali, così le vendite hanno colpito i bond

Chi ha davvero paura della Cina? Sulla carta sono davvero in tanti: un sondaggio effettuato da Bofa Merrill Lynch fra oltre 200 gestori svela che più o meno due investitori su tre ritengono un’eventuale recessione di Pechino e una conseguente crisi dei Paesi emergenti i principali rischi per i mercati. D’accordo, l’inchiesta è stata condotta proprio la scorsa settimana, cioè nel bel mezzo della svalutazione a sorpresa dello yuan e quando l’impatto emotivo era dunque elevato. Il peso dato alla crisi cinese è tuttavia significativo, quando si pensa che il mese precedente pochi guardavano verso Oriente e concentravano invece le preoccupazioni soprattutto su Eurozona e Grecia (della quale ora non si parla quasi più).
Questo appunto in teoria, perché nella realtà l’ennesimo fragoroso crollo della Borsa di Shanghai di ieri è passato praticamente inosservato in Europa e negli altri listini dei Paesi sviluppati. Una prima spiegazione per questa apparente incongruenza ha un’origine piuttosto pratica: ieri il problema riguardava i listini azionari, non il cambio e la sua svalutazione, che poi è il vero parametro che più interessa a chi deve esportare in terra cinese e a chi deve decidere se comprare o vendere titoli di quelle società. Ieri lo yuan è rimasto praticamente fermo e se lo si confronta con l’euro, che preme alle aziende di casa nostra, il suo valore resta nonostante il deprezzamento della scorsa settimana più elevato del 20% rispetto a quanto non fosse nei primi mesi del 2014.
Già la scorsa settimana però, al terzo round di svalutazione, gli investitori avevano dimostrato di saper convivere con le mosse ormai non più a sorpresa di Pechino. Analisti e strategist delle principali banche d’affari si sono del resto affannati nel cercare di spiegare alla platea, anche a ragion veduta, come l’Europa non fosse poi così legata alla Cina con il suo 3,7% di export verso il Dragone e soprattutto come quelle decisioni potessero avere in realtà dei risvolti favorevoli almeno nel breve termine per le nostre Borse.
Unendosi ieri a questa sorta di coro, Mislav Matejka di Jp Morgan Cazenove ha aggiunto però una notazione interessante: la svalutazione cinese non spaventa anche perché non è necessariamente il segnale di una crescita più debole delle attese. Pur non ignorando i timori strutturali nel lungo termine, Matejka sottolinea anzi che «le dinamiche nel breve sono migliori visto che i prezzi immobiliari, le vendite di terreni e anche le vendite al dettaglio hanno mostrato di recente una stabilizzazione».
Forse allora non è un caso se tra i numerosi motivi con cui si è cercato ieri di spiegare il passo falso di Shanghai (la Borsa cinese sembra restare un mistero per i più) qualcuno ha citato anche il dato migliore delle attese proprio sui prezzi delle abitazioni, che paradossalmente allontanerebbe nuove misure di stimolo da parte delle autorità monetarie cinesi. Che si creda o meno a un classico ragionamento del «tanto meglio, tanto peggio», è indubbio che ieri di notizie favorevoli dall’economia globale se ne sono avute diverse, dalle vendite di nuove abitazioni negli Stati Uniti (ai massimi da 8 anni in luglio) alla stessa inflazione sopra le attese in Gran Bretagna: dati che nel complesso contrastano con le visioni pessimiste delle ultime settimane e che portano a riconsiderare le attese sulle prossime mosse delle Banche centrali.
Se vendite ci sono state, ieri, si sono infatti concentrate soprattutto sui titoli di Stato, dal Bund al Treasury passando per BTp, Bonos e Gilt, e semplicemente perché indicazioni incoraggianti sulla ripresa avvicinano necessariamente il momento in cui si dovrà rendere più restrittiva (o allontano un’ulteriore espansione nel caso dell’Europa) la politica monetaria. Federal Reserve, Bce e Banca d’Inghilterra sono insomma pronte a occupare di nuovo il centro del palco, che forse non hanno davvero mai lasciato.