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 2015  agosto 18 Martedì calendario

Le quattro vite di Amelie Mauresmo: da campionessa fragile a numero 1, da ragazza-coraggio capace di rivelare pubblicamente la sua omosessualità a donna-allenatrice di un fuoriclasse maschio, e ora da madre si gode la vittoria che gli dedica Murray. Per il futuro si vedrà. Tornerà a fare la coach, magari correre maratone o a collezionare vini, oppure farà semplicemente la mamma

Viva Amelie Mauresmo, ovvero la donna che ha vissuto (almeno) quattro volte, trasformandosi da campionessa fragile a numero 1 del mondo, da ragazza-coraggio capace di rivelare pubblicamente la sua omosessualità a donna-allenatrice di un fuoriclasse maschio, in un mondo di maschi a volte troppo machi. E ora finalmente in madre: due giorni fa ha dato alla luce un bebè, e lo scoop stavolta non lo hanno fatto i suoi connazionali de L’Equipe ma il suo tennista preferito, Andy Murray. «Dedico questa vittoria ad Amelie – ha detto il n. 2 del mondo alzando la coppa dopo aver battuto Novak Djokovic nella finale di Montreal – non so se è rimasta alzata per vedermi, perché sarà stata un po’ stanca, e poi è normale che in questo momento io non sia in cima ai suoi pensieri. Ma sono tanto contento che tutto sia andato bene e che lei e il bambino siano okay».
Dedica speciale a Montreal
Sembra ieri che la dolce Amelie, gli occhi di un azzurro bretone spalancati su un mondo complesso, si affacciava al tennis. Alle spalle un rapporto duro con il padre, davanti un avvenire che aveva iniziato a pesare quando, poco più che bambina, i francesi cominciarono a paragonarla all’imbattibile Suzanne Lenglen. Rovescio a una mano, tocco, fantasia. Sensibilità, non solo in campo. Alla fine è stata proprio lei la prima francese a vincere Wimbledon, 81 anni dopo la divina Suzanne, nello stesso anno, il 2006, del suo primo Slam in Australia, quando prima della finale con la grande rivale Henin si presentò in campo con una t-shirt che urlava I’am what I’am, sono quello che sono e al diavolo se non vi piaccio. Ma in mezzo quanti dolori e amarezze, a partire dalle parole inutili, cattive e false di Martina Hingis e Lindsay Davenport («È un mezzo uomo»).
Una vita contro i pregiudizi
Le due se ne sono pentite, Amelie è cresciuta. Attaccando i suoi demoni, liberandosi l’anima «perché bisogna essere in pace con se stessi per ottenere grandi successi». Come bisogna essere grandi per cambiare le idee sbagliate che ti girano attorno. Amelie lo ha fatto, anche quando ha smesso di giocare e ha iniziato ad allenare: donne, come Marion Bartoli che la ringrazierà sempre per quella corsa fantastica a Wimbledon nel 2013, o Vika Azarenka. E uomini, come il moschettiere della volée Robert Llodra e Andy Murray, rinato anche grazie alle sue cure: «Lavorare con Amelie mi ha aperto gli occhi, con lei posso parlare di tutto senza aver paura delle mie debolezze». Fino a luglio se l’è coccolato, Andy, mentre portava a spasso il pancione per i vialetti di Wimbledon sfidando nuovi preconcetti. Per il futuro si vedrà. Tornerà a fare la coach, magari correre maratone o a collezionare vini, su tutti l’amato Sauternes. O magari si dedicherà al suo bebè: «Dipenderà solo da lei», giura Murray. Intanto grazie, Amelie, per aver reso il tennis un mondo un po’ più meraviglioso.