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 2015  agosto 18 Martedì calendario

Indagine sul caos trasporti in Italia. I nostri aeroporti sono piccoli e mal collegati, Fiumicino è l’epicentro del collasso. Oltre 100 scali attivi non bastano a sanare i ritardi di decenni di scarsi investimenti. Secondo la Cdp servono 80 miliardi entro il 2030 o il caso del principale hub nazionale, bloccato per mesi da banali incidenti, diventerà solo l’antipasto di un crollo generale di servizi e competitività

Il tempo è finito. Perché quello che abbiamo avuto è stato dissipato. Il ritardo e la fragilità infrastrutturale dell’Italia ha offerto agli occhi del Paese e del Mondo un aeroporto – il “Leonardo Da Vinci” – messo in ginocchio, nello spazio di tre mesi, prima dal cortocircuito di un condizionatore che si è fatto rogo. Quindi, da un focaraccio di sterpaglie che ha chiuso i cieli di Roma per due ore. E, come in un teatro di cui vengono improvvisamente giù le quinte alla vigilia di una cruciale rappresentazione (il Giubileo straordinario di ottobre), la messa in scena ha mostrato tutta la sua debolezza. L’inganno e l’autoinganno di una crescita senza investimenti.
Come del resto, appena il mese scorso, ha documentato il rapporto della Cassa Depositi e Prestiti sul nostro Sistema Aeroportuale. «In un Paese dai 112 scali operativi (90 aperti al solo traffico civile; 11 ad uso militare e civile; 11 dedicati al solo traffico militare) – si legge – l’impatto economico della rete aeroportuale sul Pil è del 3,6% contro una media europea del 4,1%». Quinta, per infrastrutture aeroportuali, dietro Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’Italia ha un’ultima deadline. «Considerando le previsioni di traffico, che stimano al 2030 il volume di passeggeri negli aeroporti italiani prossimo a 170 milioni di unità – argomenta il rapporto della Cassa Depositi e Prestiti – in assenza di interventi per l’incremento della capacita, entro i prossimi 10 anni i problemi di congestione degli scali potrebbero determinare un decadimento dei livelli di servizio con evidenti ripercussioni sull’economia e la competitività nazionale». Non solo. «I livelli di intermodalità e accesso agli scali risultano complessivamente inadeguati e molto distanti dagli standard europei. Ad oggi, infatti sono accessibili su ferro soltanto gli aeroporti di Roma Fiumicino, Milano Malpensa, Palermo, Pisa, Torino e Ancona. Tuttavia, anche nei casi in cui il collegamento ferroviario sia attivo, i tempi di percorrenza, le frequenze, e le caratteristiche dei treni, scoraggiano l’utenza e non rendono sempre competitivo il collegamento ferroviario rispetto alla gomma». È necessario dunque investire. E subito. Per colmare «un fabbisogno infrastrutturale il cui ammontare è pari a circa 80 miliardi di euro. La cui quota prevalente (pari a circa il 48%) riguarda gli interventi relativi all’accessibilità viaria, un ulteriore 41% riguarda l’intermodalita`, e l’11% e`riferibile alle infrastrutture aeroportuali in senso stretto».
Ottanta miliardi in 10 anni sono molti. Dieci anni per spenderli e fare qual che deve esser fatto prima del collasso sono pochissimi. Quantomeno se si guarda alla storia di Fiumicino, il principale hub italiano. Il case study per chiunque voglia provare a dare risposta alla domanda del perché e come, tra il 2000 e il 2015 (quindici anni, cinque in più di quanti ce ne restano) siamo arrivati a ballare sull’orlo dell’abisso.
Il “Leonardo Da Vinci” è un “regalo” del Governo Prodi a Cesare Romiti, espressione nitida del capitalismo senza capitali. L’Iri lo cede attraverso la società che lo controlla (la Adr, proprietaria anche di Ciampino) a 2,3 miliardi di euro (sette anni dopo, il valore stimato è del doppio), con debiti pari a 100 milioni, a fronte di un impegno di investimenti sullo scalo per 100 milioni di euro l’anno (appena 20 in più di quanti non ne spendesse l’Iri). Sono soldi che la Gemina di Romiti e la cordata che lo sostiene (Falck e famiglia Sensi) non hanno o comunque non intendono tirare fuori. Romiti mette di suo solo 350 milioni di capitale. Perché l’operazione è un leverage. Un acquisto finanziato con debito caricato sull’aeroporto, che ne è garanzia. «Nel 2000 ero presidente di Enac – ha avuto modo di ricordare recentemente Alfredo Roma – e invano feci presente a Piero Gnudi che non era consigliabile vendere Aeroporti di Roma a Romiti, che prevedeva l’acquisto con un leverage del 90 per cento. Gnudi mi rispose che Romiti offriva la cifra più alta. La storia di Adr mi ha dato ragione. Purtroppo».
Un anno dopo il passaggio di mano (2001), lo scalo ha infatti debiti per 1,7 miliardi di euro. E i promessi investimenti per 100 milioni annui si dimezzano (la media sarà di 56 milioni), riuscendo a coprire appena l’ordinaria manutenzione. Tra il 1999 e il 2004, l’investimento medio per passeggero è di 2,9 euro, quattro volte inferiore a quello dei principali scali europei concorrenti, il 20 per cento in meno di Linate e Malpensa. Mentre si moltiplica il “retail”, l’affitto di spazi per esercizi commerciali, trasformando lo scalo in un gigantesco mall. In compenso, nel 2003, Romiti tira dentro l’azionariato gli australiani di Macquarie. Che, nel 2007, ne usciranno ricchi. Con l’arrivo dei Benetton, infatti, Falck (95 milioni), Sensi (29 milioni), Romiti (160 milioni) e Macquarie (700 milioni) vengono liquidati con plusvalenze da far stropicciare gli occhi. E, nel frattempo, l’unica opera infrastrutturale inaugurata è il Terminal 1, progetto messo in cantiere dal vecchio proprietario, l’Iri. Mentre, nel 2007, la posa della prima pietra del Molo C lasciano immaginare una nuova stagione, che invece non arriva (il molo sarà forse inaugurato solo alla fine del 2016). È un fatto che, fino al 2012, di fronte all’Enac di Riggio, immota come una sfinge, anche con la nuova proprietà la quota di investimenti non superi i 50 milioni annui di ordinaria manutenzione. Anche se i numeri di crescita del traffico passeggeri schizzano in alto arrivando a superare i 40 milioni, con incrementi del 7 per cento annuo, superiori a qualsiasi altro competitor europeo. E che solo nel marzo 2013, con l’aumento delle tariffe aeroportuali (passate da 16 a 26,5 euro per passeggero) riconosciuto dal governo Monti (e per anni avversato da Giulio Tremonti) si cominci a vedere qualche soldo in investimenti infrastrutturali. «130 milioni di euro nel 2013, 170 nel 2014, 310 per l’anno in corso e 360,370 per il 2016», ha spiegato il 4 agosto, durante la sua audizione in commissione trasporti della Camera, l’ad di Aeroporti di Roma Lorenzo Lo Presti.
Dunque? Dunque, conviene oggi anche Lo Presti, pur essendo una gallina dalle uova d’oro,. E per non perderne chiede e auspica che presto venga recepita dal Parlamento la direttiva europea 139 «che darà maggiori responsabilità e poteri di coordinamento di Adr sulle società di handling» (altro punto di debolezza decisiva dei servizi aeroportuali). Di più, promette entro il prossimo anno, oltre all’inaugurazione del famigerato molo C e di un nuovo sistema Bhs per il controllo e smistamento bagagli. Poi, un giorno, verrà forse Fiumicino nord «con i suoi 180 mila metri quadri di nuova superficie terminal, 44 nuove piazzole e 39 nuovi pontili di imbarco» sui terreni di Maccarese (di proprietà dei Benetton e a suo tempo rilevati dall’Iri). Parliamo dei futuribili anni dal 2021 in avanti. Sempre che, naturalmente, per quella data, a Fiumicino si riesca ad arrivare in altro modo su quella che chiamare oggi ferrovia è un eufemismo o su strade alternative che non siano la tangenziale strozzata tra l’Eur e lo scalo. Ma per quello, appunto, è necessario che almeno 40 di quegli 80 miliardi stimati dalla Cassa Depositi e prestiti comincino ad essere investiti. E che, oltre a volerlo, si sia capaci di farlo.