Corriere della Sera, 18 agosto 2015
Il giovane Renzo Arbore folgorato da Stan Getz. Era piccolo quando in piazza a Foggia ascoltò Stardust: «Ti prende e non ti molla più: il jazz è davvero uno specchio della vita per come ti coinvolge, ti spinge all’iniziativa, esalta gli assolo e le deviazioni ma ti insegna sempre a stare in sintonia con il gruppo»
Difficile pensare che tra il 1945 e il 1946, Foggia possa essere stata la culla d’una flaubertiana educazione sentimentale (in senso musicale). La guerra, con le sue macerie e le ferite, era appena terminata, la ricostruzione di là da venire, l’umore malconcio anche se la speranza stava rinascendo.
Ma l’incontro con la canzone della vita non vuole pensieri, tanto più in un bambino di terza elementare. Ed è stato così, un puro incantamento, che su Renzo Arbore si sia cosparsa Polvere di stelle (Stardust). Lui alla finestra della casa di famiglia nella centrale piazza Giordano. E di fronte Palazzo Frattarolo, sede del comando americano, con un circolo ufficiali da dove usciva una musica ammaliante per mano e fiato di musicisti pazzeschi (tipo Stan Getz) che giravano le basi americane in Europa. Dopo quella contagiosa polvere stellare in pieno dopoguerra, la vita di Renzino non sarebbe stata più la stessa.
«Il mio amore per la musica – ricorda – è nato allora. La trama melodica di Polvere di stelle è complessa, un po’ contorta, quasi misteriosa, ma poi sfocia in un bellissimo ritornello: un capolavoro del jazz, scritto da un gigante come Hoagy Carmichael autore pure del gioiello Georgia on my mind, portata al successo da Ray Charles. Fra l’altro Carmichael, venuto in Italia da soldato, ha scritto la musica d’un pezzo che tutti ritengono italiano e invece manco per niente. Quello che fa “Io t’ho incontrata a Napoli/bimba dagli occhioni blu/e t’ho promesso a Napoli/di non lasciarti più”. Tipica canzone del soldato americano che s’innamora d’una bellezza locale all’ombra del Vesuvio».
Dall’incantamento per Polvere di stelle, con il piccolo Arbore «incatenato» alla finestra per nutrirsi di quei concerti e addormentarsi fantasticando in libertà, sono passati sette decenni. Ma le emozioni non hanno una data di scadenza come lo yogurt.
«Infatti è una canzone che continua a emozionarmi sia quando l’ascolto sia quando la canto. La considero un monumento: non a caso è stata adottata ed elaborata dai più grandi nomi del jazz».
C’è però sempre una versione che si ama di più. «Se devo scegliere prendo la mitica interpretazione del vibrafonista Lionel Hampton al Pasadena Concert del 1947. Quell’incredibile cover è in qualche modo didattica perché fa comprendere cosa significhino improvvisazione, fantasia, talento, cioè i primi ingredienti del jazz nella sua migliore essenza».
Ma come reagivano i suoi genitori a quelle sue impegnative serate d’estasi musicale? «Con curiosità e indulgenza. La famiglia era ritornata a casa dopo essere stata sfollata per tanto tempo a Chieti e Francavilla al Mare e tutto aiutava a recuperare una certa normalità. Anche la musica. Clarinetto o altri strumenti? Ancora non ne suonavo. Però papà, dentista, tenente medico, direttore del tubercolosario di Foggia, era un appassionato melomane. Mamma suonava il piano e mia sorella grande cantava Reginella e altri classici napoletani. Poi c’era la virtuosa banda civica e mettiamo pure che Foggia è la città di Umberto Giordano: non sono certo nato in un ambiente indifferente alla musica».
Il jazz come sorta di febbre endemica contro cui Arbore s’è ben guardato dal cercare antidoti. «Ti prende e non ti molla più: il jazz è davvero uno specchio della vita per come ti coinvolge, ti spinge all’iniziativa, esalta gli assolo e le deviazioni ma ti insegna sempre a stare in sintonia con il gruppo. Adoro la grande tradizione della nostra melodia che porto in tournée con l’Orchestra italiana, ma quel jazz vintage a stelle e strisce mi sta proprio nel cuore. A proposito: non è consolatorio che la grande musica, al di là delle bandiere, continui a essere apprezzata?».
Tralasciando la polvere e considerando le stelle, quali sono le preferite del suo album personale? «Fermiamoci a tre, che è un bel numero. Per la musica dico Louis Armstrong, un grande in tutti i sensi. Nel cinema Totò, perché pochi al mondo hanno avuto una vis comica con tante sfaccettature, surrealismo compreso. Per la cultura vado su Ruggero Orlando, epico corrispondente “da Nuova York” come diceva lui, raffinato intellettuale ma insieme straordinario divulgatore. Nel contemporaneo? Scelgo Umberto Eco, che stimo per il modo in cui dispensa cultura e senso dell’umorismo. Dove mai andremmo senza un po’ di sano umorismo?».