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 2015  agosto 18 Martedì calendario

Ultime sul delitto di Brescia. L’impronta dell’indiano trovata sulla vetrina, la targa del motorino guidato dal pachistano ripresa della telecamere. Così i killer della pizzeria, che hanno ucciso Frank e Giovanna, sono stati fermati dalla Mobile mentre gettavano i pezzi del Kymco in un fossato. Muhammad Adnan – il pachistano, anche lui con pizzeria a pochi metri di quella della vittima – parla di concorrenza sleale: «L’ho ucciso perché lavorava solo lui, davanti al mio negozio aveva mandato gli spacciatori e i drogati, così io non facevo affari e non riuscivo a pagare i debiti». Intanto però si scopre un tesoretto da 800mila euro che i coniugi custodivano in casa

Hanno celato il volto con i caschi integrali per poi frantumarli e gettarli in un torrente, hanno buttato in un fosso il fucile a canne mozze, hanno eliminato i vestiti e smontato lo scooter usato per l’agguato, ma non è stato sufficiente per farla franca. Uno dei killer fermati per l’omicidio di Francesco «Frank» Seramondi, 67 anni e della moglie Giovanna Ferrari, 65, non si è protetto con i guanti, ha agito a mani nude. E sulla vetrina della pizzeria ha lasciato un’impronta digitale. Ha firmato il duplice delitto di martedì 11 agosto, ha lasciato una traccia inequivocabile: era nel database della questura.
La caccia
È bastata quell’impronta per risalire a Sarbjit Singh, indiano di 32 anni, domiciliato a Casazza in provincia di Bergamo. E domenica mattina, dopo un accordo telefonico, l’indiano è stato raggiunto da Muhammad Adnan, pure lui 32 anni, pachistano con pizzeria in via Val Saviore, a pochi metri di distanza da quella della vittima. I due si erano dati appuntamento per eliminare i rottami del motorino, l’unico oggetto che poteva collegarli al delitto. Le telecamere avevano immortalato parte della targa, gli inquirenti erano già riusciti a risalire al proprietario: «L’ho prestato a un conoscente pachistano» aveva subito ammesso il proprietario che non aveva idea dei piani del conoscente. Mentre gettavano i pezzi del Kymco in un fossato sono stati fermati dalla Squadra Mobile di Brescia che sorvegliava l’indiano già da una giornata. Per Adnan e Singh non aveva senso negare e hanno confessato tutto, anche l’agguato del primo luglio a Arben Corri, l’albanese che lavorava per Frank.
Il movente
Il pachistano si è arroccato su un movente che non convince. «L’ho ucciso perché lavorava solo lui – ha confessato Adnan – davanti al mio negozio aveva mandato gli spacciatori e i drogati, così io non facevo affari e non riuscivo a pagare i debiti». La «concorrenza sleale» per gli inquirenti non basta a giustificare tanta efferatezza, pare un motivo sproporzionato per il massacro di martedì scorso. Chi indaga cerca altro, vuole vederci chiaro e tutte le relazioni e gli affari sia degli assassini che delle vittime sono scandagliati dalla Mobile e dalla Guardia di Finanza.
I soldi
Nel mirino anche il tesoretto trovato a casa delle vittime e da parenti e dipendenti: quasi 800 mila euro. Per il procuratore Tommaso Buonanno «sono necessari ulteriori accertamenti. Con il fermo dei due soggetti si è conclusa brillantemente una fase delle indagini, ma bisogna lavorare ancora». Il movente non convince neppure il procuratore generale Pierluigi Maria Dell’Osso «bisogna accendere un faro per illuminare le relazioni e la vita dei protagonisti della vicenda; capire se i due hanno mutuato le caratteristiche dell’esecuzione dalla criminalità organizzata o c’è altro».
I ruoli
Sul ruolo dei due fermati non ci sono dubbi. Per 7 ore hanno risposto al magistrato Valeria Bolici, al dirigente della Mobile Giuseppe Schettino e al questore Carmine Esposito ricostruendo le fasi dell’omicidio, dando un sonoro alle immagini che gli inquirenti avevano visionato per ore per riuscire ad arrivare, in soli cinque giorni, alla soluzione del caso.
La ricostruzione
La mattina dell’omicidio Adnan e Singh sono arrivati alle 8.20 in sella allo scooter e sono entrati in un locale abbandonato di fronte alla pizzeria «Da Frank». Hanno atteso fino alle 10, quando Frank è arrivato con la moglie Giovanna. Subito sono entrati in azione, hanno attraversato il piazzale con il motorino, sono scesi e Adnan è entrato e ha fatto fuoco, prima ha ucciso Giovanna Ferrari, con un colpo al volto, poi ha inseguito Francesco Seramondi nel laboratorio sul retro, l’ha ferito immobilizzandolo a terra con un piede e lo ha finito con due colpi. Non ha avuto pietà: quattro colpi in sequenza, in pochi secondi. Poi la fuga nelle vie limitrofe. Il tempo di far sparire la moto e il pachistano è tornato al lavoro, si è pure fatto intervistare e ha ripreso con il cellulare il lavoro della polizia, soffermandosi sugli uomini della scientifica avvolti nelle tute bianche.
L’arma del delitto
Il pachistano ha permesso anche di recuperare l’arma del delitto, il fucile da caccia a canne mozze acquistato pochi giorni prima del delitto era ancora nel fossato in via Roncadelle dove era stato gettato durante la fuga. «In Pakistan andavo spesso a caccia – ha detto agli inquirenti – sapevo come si usa un fucile, non ho avuto alcun problema». Sempre nella stessa via il killer e il suo complice avevano lasciato anche la moto, recuperata due giorni dopo. E in zona, in un ampio parcheggio, era stata parcheggiata l’Alfa Romeo usata per gambizzare il dipendente di Frank.