Il Messaggero, 18 agosto 2015
Il Brasile è sceso in piazza al grido di «Dilma vettene!». Una marea verde-oro, circa 800mila persone ha inondato le strade di Rio de Janeiro, San Paolo, della capitale Brasilia e di altre 150 città, per esigere le dimissione della “presidenta” Rousseff, associata agli scandali di corruzione che hanno scosso il paese, da potenza emergente scivolato nella recessione economica, che secondo gli analisti continuerà per l’intero 2016
Al grido di «Dilma vettene!» e scandendo l’inno nazionale, una marea verde-oro ha inondato domenica le strade di Rio de Janeiro, San Paolo, della capitale Brasilia e di altre 150 città, per esigere le dimissione della “presidenta” Dilma Rousseff. La dama di ferro, economista di 69 anni, protagonista della meteorica ascesa nella politica nazionale impulsata da Lula de Silva nel 2002, è associata agli scandali di corruzione che hanno scosso il paese, da potenza emergente scivolato nella recessione economica, che secondo gli analisti continuerà per l’intero 2016.
Circa 800mila persone si sono mobilitate nella terza protesta nei primi otto mesi del secondo mandato della Rousseff, seguita a quelle di massa del 15 marzo e del 12 aprile scorsi, e convocata via social network dai principali movimenti popolari di opposizione al Governo, ‘Vem Pra Rua’ (Vieni in strada) e Movimiento Brasil Livre (Movimento Brasile libero MBL). ‘Fuori Lula’, ‘Fuori PT’, le consegne scandite dal nord al sud del paese per dire stop alla corruzione: dal caso Petrobras, il colosso statale petrolifero, di cui Dilma è stata presidente, prima di essere chiamata al governo dal suo predecessore, Louiz Ignacio Lula de Silva; a quello che ha coinvolto il Partito dei Lavoratori (PT), del quale la Rousseff è stata leader e il cui tesoriere è stato arrestato nei mesi scorsi. Secondo tutti i sondaggi, la maggioranza dei brasiliani vuole che la ‘presidenta’ vada a casa. Anche se nell’opinione pubblica impera il pessimismo sull’eventuale avvicendamento con il vicepresidente Michel Temero o con un governo guidato dal leader del principale Partito dell’opposizione, il PSDB – che aveva perduto nell’ottobre scorso la sfida con la Rousseff.
LA CADUTA
Ma cosa è accaduto perché la popolarità del primo presidente donna del paese, figlia di un immigrato bulgaro e di una casalinga, combattente in clandestinità durante la dittatura militare, precipitasse ai minimi storici? Per capirlo è necessario un passo indietro, al 20 giugno 2013, quando migliaia di simpatizzanti del Movimento Pase Libre (MPL), che organizzò le proteste durate 2 settimane contro l’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici, occuparono l’avenida Paulista, a San Paolo, per celebrare il ritiro della misura. Una bandiera rossa del Partito dei Lavoratori, considerato il partito dei poveri, fu bruciata. Un gesto simbolico ma sufficiente a dimostrare che il PT, assediato dagli scandali di corruzione, aveva perduto la guida simbolica del movimento popolare degli anni ’80 e ’90. La disoccupazione e l’inflazione crescenti, uniti alla rabbia per lo scandalo di corruzione in Petrobras, che ha portato in carcere personaggi ritenuti al di sopra di ogni sospetto, con l’ex ministro José Dirceu e l’ex tesoriere nazionale Joao Vaccari Neto, hanno fatto il resto.
IL CONSENSO
Dagli altari alle ceneri, il consenso sociale del PT è crollato da 29% al 9% dell’ultimo sondaggio, ma ancora davanti alle formazioni conservatrici come il Partito Movimento Democratico Brasileño, del vicepresidente Temer, o il Partito de la Social Democrazia del Brasile, dell’ex presidente Fernando Cardoso, entrambi fermi ai livelli di popolarità del 1989: il 6%. Dilma paga la caduta all’inferno anche per conto del PT, accusato di «aver abbandonato l’etica della trasformazione sociale», per “adottare una politica di consumismo populista” perfino da politici come Frei Betto, uno dei fondatori del partito e amico personale di Lula. Nel succedere al governo suo mentore, nel 2011, l’economista Rousseff ha tentato di mantenere la stessa politica economica, ma tirando troppo la corda soprattutto con le classi medie e con una spesa pubblica insostenibile.