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 2015  agosto 17 Lunedì calendario

Agosto 1860 e luglio 1883: il viaggio di Don Fabrizio, il principe del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, tra sparuti eucaliptus, piazze rese incandescenti dal sole e cattivi presagi

Tra due estati, nel Gattopardo, si compie il percorso terreno del principe di Salina.  Agosto 1860 e luglio 1883. Con il viaggio della grande famiglia verso la residenza di Donnafugata, il paesaggio, per un breve tratto di pagine, diventa predominante: «Gli alberi! Ci sono gli alberi!». Lanciato dalla prima delle cinque carrozze che portano l’intera famiglia verso la villeggiatura, è con questo grido che si apre il secondo capitolo, segnando il passaggio dalla città cupa e dalle sue stanze fosche allo splendore (apparente) della campagna.
In realtà, si tratta di tre sparuti eucaliptus, «i più sbilenchi figli di Madre Natura». Dalle sei alle undici del mattino «non si erano viste che pigre groppe di colline avvampanti di giallo sotto il sole».
Tomasi di Lampedusa è un grande scrittore di paesaggi che non lesina gli aggettivi: «Si erano attraversati paesi dipinti in azzurrino tenero, stralunati; su ponti di magnificenza bizzarra si erano valicate fiumare integralmente asciutte; si erano costeggiati disperati dirupi che saggine e ginestre non riuscivano a consolare. Mai un albero, mai una goccia d’acqua: sole e polverone». Chi conosce la Sicilia di oggi sa che in quei luoghi non è cambiato quasi nulla.
I tre eucaliptus, sotto quel cielo sbiancato, a cinquanta gradi, annunciano che ci stiamo inoltrando nelle terre dei Salina, dove il romanzo prenderà il suo corso definitivo.
Il viaggio durerà tre giorni, con tappe notturne in case e locandacce repellenti tra scarafaggi («cimici») e mosche (a Bisacquino, il principe ne ha trovate tredici nel bicchiere della granita), ma soprattutto con quel vago presentimento di morte che don Fabrizio si porta con sé, dal momento in cui avverte che il suo vecchio mondo feudale e aristocratico deve cedere il passo: le truppe garibaldine sono arrivate in maggio, consegnando il potere ai Savoia.
L’accoglienza ufficiale sulla piazza «abbrutita dal sole», sembra però rassicurante, il Principe si offre alla sua comunità con una nuova gentilezza non più patriarcale ma quasi paterna. Ma se la cittadinanza ai suoi occhi era immutata, era lui che stava cambiando: «E da quel momento, invisibile, cominciò il declino del suo prestigio».
Il fulgore dell’estate è un abbaglio breve, perché anche a Donnafugata, in pieno agosto, tornano le penombre, si suda nelle stanze, sudano persino i muri: «Rivoletti d’acqua serpeggiavano sui mattoni, la stanza era carica di odore latteo di crusca, di odor di mandorla di sapone».
Muti pensieri sull’avvenire del nipote Tancredi, sui suoi possibili amori, sulla dote; e il caldo diventa freddo, la pelle delle braccia si raggela, le punte delle dita si raggrinziscono, si sente rintoccare, là fuori, un suono di campane a morto: «Qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era mancata la forza di aspettare le piogge».
Beato lui, pensa don Fabrizio, e si consola: «Finché c’è morte c’è speranza». Eccolo adesso in giardino, dopo un pisolino in poltrona: «Il sole già calava e i suoi raggi, smessa la prepotenza, illuminavano di luce cortese le araucarie, i pini, i robusti lecci che facevano la gloria del posto». E con Tancredi va a guardare le «pesche forestiere», compiacendosi che l’innesto con i «gettoni tedeschi» sia perfettamente riuscito: «I frutti erano pochi, una dozzina sui due alberi innestati, ma erano grandi, vellutati, fragranti; giallognoli, con due sfumature rosee sulle guancie, sembravano testoline di cinesine pudiche». Li tasta: sono maturi.
Sulla tavola solennemente imbandita per la cena, troneggia, nell’ammirazione generale, un timballo di maccheroni, con l’«oro brunito dell’involucro»: «Ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio».
Ed ecco ora il paesaggio serale sotto gli occhi del Principe che si appresta ad andare a letto: il giardino sprofondato nell’ombra, gli alberi che sembrano di piombo fuso, il «sibilo fiabesco» dei gufi che giunge dal campanile. «Il cielo era sgombro di nuvole: quelle che avevano salutato a sera e se ne erano andate chissà dove, verso paesi meno colpevoli, nei cui riguardi la collera divina aveva decretato condanna minore»: è un’estate che porta, anche a sera, cattivi presagi.
La seconda estate, quella del luglio 1883, è l’ultima per don Fabrizio, che dall’albergo di Palermo in cui aspetta la fine non vede più il sole, anche se «la luce riflessa dal mare metallico era accecante».