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 2010  febbraio 13 Sabato calendario

La modernità de “Le confessioni di un italiano”

Vale per un’intera cultura letteraria una considerazione, assai citata, di Alfonso Berardinelli: «Mi sono accorto tardi di essere italiano». Ci si accorge con sorpresa, per esempio, di come la stessa parola Italia manchi nei titoli del nostro canone sino alla fine del secolo scorso. Le poche eccezioni riguardano per lo più repertori umanistici (scritti dunque in latino) come quelli di Flavio Biondo e Ludovico Antonio Muratori o, certo, la Storia di De Sanctis. Tutti casi, cioè, in cui la definizione dell’italianità passa essenzialmente per un repertorio di testi. Sino a pochissimo tempo fa, insomma, più che geografica l’Italia era un’espressione retorica. (Chissà non sia proprio questa, la ragione della sua scarsa fortuna presso i nostri letterati: da sempre retoricissimi spregiatori della retorica).
In una delle sue ultime interviste Italo Calvino dichiarava la propria ammirazione per Le confessioni d’un ottuagenario di Ippolito Nievo, «l’unico romanzo italiano dell’Ottocento dotato d’un fascino romanzesco paragonabile a quello che si ritrova con grande abbondanza nelle letteratura straniere». Romanzo-romanzo se ce n’è uno, il libro di Nievo dovrebbe revocare in dubbio il pregiudizio sull’incoercibile inettitudine al romanzo degli scrittori italiani. Fu un caso, a Torino nel giugno del ’57, l’incontro fra Nievo e un «conte russo» che con ogni probabilità era Tolstoj, e sono frutto del caso le non poche coincidenze fra il suo romanzo e Guerra e pace; ma talora le coincidenze indicano misteriose simmetrie.
Ma l’eccezione rappresentata da Nievo è soprattutto antropologica. Non l’Italia infatti: bensì l’Italiano. Si sarà notato come Calvino, invece, citasse il titolo della prima edizione (col quale a volte circola tuttora). Si era trattato, in origine, di una censura politica; solo nel 1931 il testo verrà pubblicato col titolo dell’autore. Assai indicativo del senso del libro, che volendo si può leggere tutto nella sua prima frase: «Io nacqui Veneziano ai 18 Ottobre del 1775, giorno dell’Evangelista San Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo».
Prima di tutto, insomma, c’è l’Io. Nievo sceglie una voce narrante postuma: che narra gli avvenimenti, cioè, a distanza di decenni – e così sottopone i dettagli scabrosi del Reale (Politico ma anche Erotico: la Pisana è il personaggio più sexy della nostra letteratura) a una tinta «un po’ velata, brumosa, da enciclopedia tedesca» (come si espresse un altro fan accanito, Pier Paolo Pasolini). La diplopia, o sovrimpressione, di un presente e un passato che appartengono alla stessa persona fa anche sì che Carlino Altoviti sia portavoce delle idee di Ippolito Nievo ma non coincida con lui (la sua religiosità, per esempio, non era certo dell’autore; il quale però, nel frammento sulla Rivoluzione nazionale, non a caso ne affermerà la necessità politica).
C’è poi un altro felice strabismo. Carlino vuole con tutte le sue forze divenire «Italiano», ma non dimentica mai di essere nato «Veneziano». Non è un caso che la formula critica più felice sia dell’autore di Geografia e storia della letteratura italiana, Carlo Dionisotti: il quale parlava – a proposito della grandiosa seconda parte del romanzo, a torto negletta dalle letture idealiste – della sua «intelligenza della storia». Se Nievo capiva la storia era per il suo senso – mobile, plurale, concretissimo – della geografia. Non c’è nostro testo che abbia una simile percezione sensuale del paesaggio nella sua differenza o, diremmo oggi, nella sua site specificity: a partire dall’impasto linguistico, nel quale i succhi regionali danno respiro al toscano della tradizione letteraria.
Il controcanto dell’ironia, frutto del senno di poi della maturità, non dissipa mai il sostrato energetico dell’adolescenza: le Confessioni sono un romanzo di formazione senza smettere di essere un romanzo picaresco. L’amore di tutti i lettori per la prima parte del libro (si pensi alla strepitosa «scoperta del mare») si deve al fatto che il senso immediato, tattile, fisico dell’adolescenza vi è reso da uno scrittore ventiseienne.
La finzione colloca il rammemorare dell’Ottuagenario nel 1849: all’indomani, cioè, della più cocente sconfitta. Ma l’atto di scrittura di Nievo è nel 1857-58: nel pieno, cioè, di una nuova stagione di speranza. Stefano Jossa ha mostrato come le Confessioni conservino un tipico carattere della nostra letteratura: quello per cui l’Italia è qualcosa di eternamente «a venire». Quello italiano è sempre stato un popolo che manca. Ma della Storia Nievo non è solo testimone, bensì partecipe in prima persona. Nelle sue pagine il futuro è imminente: lì a portata di mano.
«Morrò italiano», aveva profetizzato Carlino. Si trova a Palermo, il colonnello Nievo, quando annuncia all’amata cugina Bice Melzi di aver radunato le carte della spedizione dei Mille. Le porterà in Parlamento per sbugiardare i dietrologhi antigaribaldini: così «questa vitaccia sarà finita». il 4 marzo 1861 quando «l’ultima camicia rossa a Palermo» salpa sul piroscafo Ercole. La mattina seguente, dopo una notte di tregenda, tutte le navi approdano a Napoli. Tutte tranne l’Ercole. Disperato, l’intendente generale Acerbi si rivolge all’amico: «Solleciti la sua partenza da costì e si rechi immediatamente a Torino, interessandosi di presentare subito il rendiconto».
Ma non c’è più, Nievo, a ricevere il telegramma. Il giorno dopo, 17 marzo, trova poco spazio sui giornali la notizia del naufragio dell’Ercole. Quel giorno stesso infatti – con la firma di Vittorio Emanuele e del Conte di Cavour sulla legge uscita tre giorni prima dal Parlamento – viene proclamato il Regno d’Italia.