15 agosto 2015
La morte di Cavour
Siamo alla fine. Quando s’era sentito male?
Il 29 maggio 1861. Quel giorno la seduta alla camera era cominciata con la lettura di un progetto del deputato Ricciardi. Si trattava di aprire una sottoscrizione nazionale, intitolata “Denaro d’Italia”, «coll’unico scopo di aiutare il governo nel compimento dell’impresa italiana». Il deputato Ricciardi era assente, il presidente Rattazzi dichiarò che bisognava aspettare il suo arrivo e fissare con lui il giorno del dibattito.
Seguì una discussione su certi benefici che erano stati concessi nel ’50 a chi aveva combattuto in difesa di Venezia. I democratici volevano che si estendessero anche a quelli della repubblica romana e Brofferio parlò appassionatamente in favore. Cavour si oppose con altrettanto accanimento. Sostenne che bisognava esaminare quel che ognuno aveva fatto dopo. Fece il caso di Enrico Cernuschi: «Avendo egli a Parigi un impiego molto lucroso, non credette doverlo abbandonare nel 1859 per venire ad offrir la sua spada nell’esercito regolare od irregolare». In effetti Cernuschi era diventato un banchiere.
Si scatenò il solito finimondo. Certi tasti, appena toccati, provocavano esplosioni. Conciliò tutti, ancora una volta, Nino Bixio, con quest’ordine del giorno:
«La Camera, udite le dichiarazioni dell’onorevole presidente del Consiglio, dichiara che tutti coloro che hanno combattuto per l’indipendenza nazionale hanno ben meritato della patria».
Uscirono mentre una voce monotona leggeva l’ordine del giorno dell’indomani: «Primo, ritiro delle monete erose in corso nelle provincie dell’Emilia, delle Marche e dell’Umbria, e loro cambio con nuove monete di bronzo. Secondo, riordinamento...».
Si ritrovò fuori e tutti si inchinavano per salutarlo. Era furibondo per la storia dei veneziani e dei romani, da lui giudicata come la solita faciloneria, la solita demagogia. Fece la strada fino a casa a passo veloce, salì su, pranzò con Gustavo e Ainardo, gli fe- cero dimenticare la seduta discutendo di Santena, dove bisognava far delle riparazioni. Gustavo, dopo la sconfitta di quella volta sulle spese, s’era calmato. Cavour, tenendo i conti giorno per giorno, gli aveva dimostrato che non erano affatto in miseria. E, per farlo ancora più felice, aveva acconsentito a diminuire il numero delle portate. Mangiò con gusto, andò a fumare il sigaro sul balcone.
Finito di fumare, si fece portare in carrozza da Bianca. Le aveva regalato una villa in collina, con una grande aia e la vista dei campi. Ma era comunque di cattivo umore, si fece portare una bevanda fresca e se ne andò via subito. Aveva mal di testa e desiderio di coricarsi il prima possibile.
Da molto tempo non riusciva a prender sonno. Ma stavolta si addormentò. Dormì sodo per un’ora. Passata quell’ora, si ritrovò sveglio, la testa fuori dal letto a vomitare. Il domestico del piano di sotto sentì i rumori e pensò che, come ogni notte, stesse facendo su e giù per la stanza, stesse parlando da solo a voce alta. Invece il campanello suonò con violenza. Quando il domestico arrivò su, Cavour era inginocchiato ai piedi del letto. Guardandolo, mormorò: «Mi sta venendo un colpo...».
Da un pezzo non c’era più il dottor Tarella. Tutta la sua clientela era stata ereditata dal dottor Rossi. Il dottor Rossi aveva sempre curato Cavour per modo di dire. Cavour non credeva ai medici e il dottor Rossi, intimidito, si adattava ai suoi capricci. Venne e lo salassò. Ordinò un altro salasso per le otto del mattino e un terzo alle cinque del pomeriggio. Aveva una gran febbre. Nigra dovette scrivere un biglietto di scuse a lady Holland, che si trovava a Torino e lo attendeva per quella sera.
La febbre andò via nella notte tra giovedì e venerdì. Tenne consiglio dei ministri in camera sua. L’aveva fatto decine di volte! Vennero tutti. La questione fondamentale, su cui s’affannò a chiedere, era la lettera di Vimercati. Pareva che Napoleone si sarebbe deciso a riconoscere l’Italia. Ma la lettera non era arrivata. Il consiglio dei ministri durò due ore. Lavorò poi a lungo con Nigra e Artom. Quando se ne andarono, entrò nella stanza Giuseppina, la nipote. Rimase a fargli compagnia. Lui disse:
«Mi secca star qui, con tutto quello che c’è da fare».
Nessuno capì che il male era grave, anzi che era l’ultima malattia. Gustavo tranquillizzava tutti: «Ma no, è il solito...». Infatti lo aveva preso altre volte in quel modo. I medici la descrivevano come infiammazione dell’intestino che si irradia al cervello e cagiona alterazione di mente, vaniloquio. Si cava un po’ di sangue e tutto passa. Nel ’53 gli avevano consigliato riposo assoluto, «se no succederà qualche disgrazia». Castelli lo aveva portato una settimana a Pesio, senza benefici apprezzabili. Alle cinque, quando tornò il dottore, aveva di nuovo la febbre. Gli diedero del chinino. Non fece effetto.
«Come mai non fa effetto?».
«È un disturbo intestinale, Eccellenza. S’è annullato l’effetto del rimedio».
Il giorno dopo, sabato, gli fecero altri due salassi.
Passò tranquillo la notte. La domenica mattina il marchese Gustavo trovò la servitù che piangeva. «È perduto, è perduto...». Sostenevano di conoscerlo bene. Gustavo non ci credeva. «Ma se è sfebbrato!». Non s’accorse che era più pallido, che aveva un’aria sfinita. Giuseppina gli tastò il polso. Il destro era regolare, il sinistro freddo. «Zio...». Gli palpò tutto il braccio. Freddo, freddo come il marmo. «Beh, datemi da leggere» fece lui.
Chiese l’Histoire du Consolat et de l’Empire di Thiers. Ma le righe gli ballavano davanti.
«Veh, non so più leggere».
Mise via il libro e tirò le gambe fuori dal letto, per scendere. Gli s’aprì la vena da cui avevano salassato. Sanguinava, e non la smetteva. I domestici, i parenti gridavano. Arrivò il chirurgo, gli allacciò il braccio. Ma lo riprese la febbre e passò una notte tre- menda. Il lunedì il dottor Rossi chiese un consulto. Andarono a chiamare Maffoni. Gli avevano messo una tazza piena di ghiaccio vicino al letto. Cavour ne pigliava manciate e se le ficcava in bocca. La sete non andava via. Si girò verso Rossi.
«Ho da fare. Ho troppo da fare! Mi faccia un altro salasso».
Rossi gli prese la vena, ma il sangue non usciva. Premette e vennero due o tre gocce nere. Mormorò a Giuseppina. «Va male. Non reagisce».
Arrivò Maffoni. Cavour subito si agitò.
«Insomma, si tratta di guarire. Devo andare con Bixio a vedere i lavori sul Moncenisio, c’è un monte di roba da sbrigare...».
Lo visitarono.
«Allora, si può sapere di che si tratta?».
«È una febbre d’accesso, Eccellenza, con minaccia di travaso cerebrale. Il travaso è stato evitato grazie ai salassi, ora si tratta di non far tornare la febbre...».
«Mah. Per me il male ce l’ho qui» e s’indicò la testa.
Gli dissero che doveva prendere solfato di chinino liquido. «No, non voglio. È cattivo».
«Eccellenza...».
«Dammi delle pillole».
«Eccellenza, deve fare come Le diciamo. Prenda la medicina
tre volte al dì, prima delle undici di sera».
Lo convinse la nipote. Ma quando ebbe bevuto ricominciò a
vomitare.
«Fa schifo. Puah!».
Alle nove venne Carignano. Dopo, disse:
«Ma non sta così male. No, non mi pare proprio».
Invece di notte la febbre aumentò ancora e al mattino i medici
ordinarono senapismi e borse di ghiaccio in testa. Prese a scaraventar via le borse di ghiaccio.
«Oh, basta con questi tormenti».
Uscirono tutti, ma, quando furono fuori, Martino Tosco, il vecchio servitore, sentì che lo richiamava.
«Martino...».
«Eccellenza...».
«Va’ da padre Giacomo. Digli di tenersi pronto. Ha promesso
che, nel caso, mi assisterà. Poi voglio vedere Castelli e Farini». Cominciò a delirare. Quando arrivò Castelli, lo riconobbe, ma non riuscì a mettere insieme due parole sensate. Poggiò la testa sul petto dell’amico, quel gran testone, e prese a giocherellare con un ciondolo che gli pendeva dal collo. L’amico, con una spugna, gli tergeva il sudore.
Farini era medico. Disse di continuare le applicazioni di ghiaccio. Così il malato si rassegnò a tenere le borse sul capo. Tornò un momento lucido e chiese della Francia.
«No, la lettera non è arrivata».
Guardò fuori dalla finestra.
«Sarà difficile difender le nostre coste. Sono così lunghe. Ci
vorrà vent’anni per avere una vera marina. Io non posso occuparmene, sono troppo stanco. Dovrò rinunciare a questo ministero. Se si chiamasse Menabrea? Eh? Che ne dici?».
Quella sera, martedì, la folla invase il palazzo. Stavano seduti sulle scale, fino al pianerottolo, fino alla porta dell’appartamento. E poi fuori, lungo la strada. Restarono lì, imperterriti, fino all’ultimo. Il mercoledì mattina i medici dissero a Gustavo e al marchese di Rorà di avvertire Cavour del suo stato.
«Se ha da prender qualche disposizione...».
Sembrò a tutti che la più adatta a parlargli fosse Giuseppina. Una donna, una nipote. Entrò tremando.
«Zio...».
Cavour, seduto sul letto, la fissava.
«C’è il padre Giacomo. Vorrebbe salutarvi».
«Fallo entrare».
Stettero soli mezz’ora. Poi Cavour volle Farini.
«Farini, mi sono confessato e assolto. Dica a tutti che sono stato confessato e assolto. Morirò da cristiano». Neanche Farini riusciva a parlare.
«Farini. Io non ho fatto del male a nessuno». Tornò la nipote.
«Zio, se chiamassimo Riberi? O Bufalini? O Tommasi?».
«È tardi, piccina. Tardi».
Venne però Riberi. Vedendolo scherzò.
«Prima, caro dottore, non ero un malato degno di lei». All’uscita gli si affollarono intorno.
«Non ha nessuna speranza. Dategli qualcosa da mangiare».
Gli misero delle ventose alla nuca e dei vescicanti alle gambe. I vescicanti non fecero presa. Delle ventose, che dànno tanto dolore, non s’accorse. Alle nove di sera arrivò il re. Passò dalla scaletta laterale, quella che adoperava La Farina e che aveva salito, tanti anni fa, anche Garibaldi. Cavour lo riconobbe.
«Maestà».
Vittorio Emanuele gli prese la mano.
«Ho un sacco di carte da mostrarle».
«Sì, Cavour».
Cavour disse: «Maestà, le manderò Farini e le spiegherà tutto. La lettera è arrivata? L’imperatore è ben disposto verso di noi, molto ben disposto. I Napoletani sono intelligenti. Ce n’è che sono capacissimi. Altri corrotti. I corrotti vanno lavati. Sì, Maestà, si lavi. Si lavi».
Il re andò via. Pregò che l’indomani, alle quattro, gli portassero notizie.
Gli diedero da mangiare brodo con pane tritato. Sorseggiò del bordeaux. Cominciò l’ultima notte.
La morte si annunciò con i discorsi. Arringò la camera. Siccome la veglia si svolgeva in un gran silenzio, tutti sentirono. Chi stava seduto in anticamera, la folla per strada. La voce usciva dalle finestre, correva tra le case.
«Siamo tutti italiani» gridò «ci sono i Napoletani. I Napoletani sono povera gente. Che colpa ne hanno. Ferdinando era un farabutto. Ora educhiamo, facciamo le scuole, non si deve insultarli, no. Questo no. Domandano impieghi onorificenze promozioni? Lavorino, siano onesti e darò loro impieghi, onorificenze, promozioni. Ma non bisogna fargliene passar liscia neanche una. L’impiegato... Sia l’impiegato al di sopra di ogni sospetto. Niente stato d’assedio, no, no. Tutti son buoni a governare con lo stato d’assedio. La libertà li farà ricchi, tra vent’anni i più ricchi...».
Prese fiato. Tutti sentirono che prendeva fiato.
«Garibaldi è un galantuomo. Vuole andare a Roma e a Venezia. E anch’io. L’Istria e il Tirolo è un’altra cosa. Sarà per un’altra generazione. Abbiamo fatto abbastanza, noialtri, abbiamo fatto l’Italia e la cosa va. La Confederazione germanica è un’anomalia. I prussiani ci metteranno cinquant’anni a fare quello che noi abbiamo fatto in tre. E l’America invece si divide! Guarda tu! Mentre l’Europa si unisce, l’America si divide. E come lo spieghi...?».
Aspettò che quell’altro (Nigra? Emilio? Nina? Bianca? Cassio?) gli desse una risposta.
«Mah» disse «io non capisco. Da giovane ammiravo gli americani. Un ammiratore entusiasta. Enigma. Ho perso ogni illusione».
«Zio...».
La nipote s’era accostata.
«Dimmi come sono disposti i militari. Dimmi i nomi dei generali. Dimmi ogni generale a che posto sta».
Qualcuno le suggerì qualche nome. Lei – persa – mormorò il tale ad Alessandria, il talaltro a Piacenza...
«Sbagliato! Hai detto che era a Parma, poi hai detto che era a Bologna. Sbagliato! Sbagliato! Gustavo, da mettere al posto mio non c’è che Ricasoli. O Farini. Quel brodo era troppo succoso...». Le gambe erano fredde. Tendeva a girarsi sulla sinistra perché da quel lato il braccio gli doleva. Gli fecero sorseggiare ancora del brodo e del bordeaux. Venne padre Giacomo e gli diede l’estrema unzione. Tutta la città accompagnò il viatico. La lingua gli s’era fatta grossa e non riusciva a inghiottire il ghiaccio tritato. Strappò il fazzoletto dalle mani della nipote e si fregò le labbra. Ma ormai era
l’alba di giovedì 6 giugno e poco dopo si fecero le sei e tre quarti. Prima di morire, diede ancora un paio di rantoli.
Il re offrì di seppellirlo a Superga, ma la famiglia rifiutò. Un anno prima, andando a Santena e trovandola piena di fiori in suo onore, aveva detto: quando sarà, è qui che voglio stare. Il suo loculo è nella cappella, appena si entra a sinistra, sopra quello di Augusto.
Gli tributarono lo stesso onori fuori dell’ordinario. Una folla immensa seguì il funerale. La camera, in segno di lutto, chiuse per venti giorni e per tutto quel tempo il tricolore fu ricoperto di gramaglie. Dopo, non c’era giorno che non saltasse su qualcuno a proporre di fargli un busto da qualche parte. Approvavano sempre all’unanimità. Al momento delle commemorazioni in parlamento, il discorso più notevole fu quello del Ferrari, che era sempre stato suo avversario. Era il 26 giugno 1861.
«No» disse «voi non sentirete da me in questo recinto una parola contraria al Conte di Cavour, che ha compiuto l’opera sua, che ci ha vinti, e la cui morte nella vittoria può essere augurata al migliore dei nostri amici. La terra potrebbe girare mille volte intorno al sole, il Conte di Cavour ci avrebbe vinti. Io considero come un onore della mia vita di essermi misurato con lui nello scontro di poche parole indelebili nella mia memoria... Qualunque cosa voi ora facciate, andate a Roma, penetrate a Venezia, sarà il Conte di Cavour che vi avrà condotti, preceduti, consigliati, menati e qualunque calamità emerga, egli sarà sempre morto e sempre immortale come Alessandro».
Anche il parlamento inglese dedicò una seduta a ricordarlo.
Il fratello, marchese Gustavo, mandò in giro per qualche tempo lettere listate a lutto. Ma già un mese dopo (21 agosto 1861) scrisse alla figlia: «Non possiamo nasconderci che quel povero Camillo, in trent’anni, non ha certo vissuto da cristiano... A parte la politica, il suo legame criminale con madame Ronzani l’avrebbe escluso dal Regno dei giusti se non avesse lavato questo torto nel sacramento della penitenza. Allora, a che gli sarebbe servita tutta la gloria che circonda il suo nome?»
A Bianca lasciò seimila franchi o, secondo altri, dodicimila. Più la villa sulla collina.
Di che cosa è morto davvero, secondo te?
Negli ultimi anni s’ammalava comunque di continuo. La Rosanna Roccia, che cura oggi l’epistolario del conte (33 tomi, e non è finita), mi ha detto che vorrebbe scrivere un libretto su queste infinite febbri che lo riducevano a letto senza forze. Libretto –
s’intende – con la lista di tutti quelli che andavano a trovarlo. Era malaria, e dovrebbe averla presa nel ’53 a Leri, perché è più o meno a quell’epoca che cominciano queste cadute e ricadute. Il dottor Rossi sbagliò a praticargli cinque salassi, Farini voleva ammazzarlo e in ogni caso Cavour aveva ragione a diffidare dei medici e specialmente dei medici di Torino (Massimo, una volta, scrisse che i medici di Torino «godono d’una fama europea»). Il chinino, che avrebbe potuto salvarlo, gli fu somministrato troppo tardi. Si trattò dunque, al 99,9 per cento, di una morte per malattia, malattia mal curata. Ci torna comodo tuttavia, a fini puramente narrativi, esaminare altre due ipotesi che si sentono spesso, benché prive di fondamento storico.
Sentiamo.
La prima è quella della stanchezza. Il conte, cioè, sarebbe stato stroncato dalla fatica incessante di far l’Italia, prima la guerra all’Austria, poi l’umiliazione di Villafranca, infine gli scontri con Garibaldi. Questa lettura della sua fine permette di dire un’ultima parola su di lui, la sua vita, la sua natura. L’Asproni – che lo detestava –, essendosi diffusa sei mesi prima la falsa notizia della sua morte, scrisse nel diario: «Era pieno di spirito, scaltro e impratichito del mondo, senza scrupoli, senza freno morale, disinvol- to e cortese nei modi suoi, avido e insaziabile di potere e di pecunia. Vasto nei concetti secondo la sua politica, inarrivabile e singolare negli espedienti, facile al frizzo, cieco nelle ire, e ardito a fare qualunque passo pericoloso per vincere gli avversarii e conservarsi in potere. Dando pranzi, strette di mano, amabili parole, e pagando largamente dei fondi segreti, non che prodigando impieghi e ciondoli, corruppe l’elezioni, la stampa, allucinò la pubblica opinione e per dieci anni visse arbitro del paese». A questa immagine – quella che avevano e davano di lui i democratici – si affianca l’altra, propagandata dai moderati, in cui si vede Cavour a passeggio sotto i portici, canterellante lieve tra sé e sé, scherzoso e cordiale, stringe le mani a quelli che incontra, sorride a tutti, diffonde ottimismo tra i torinesi che lo scrutano per capire l’umore del mondo. C’è infine il terzo Cavour, quello che emerge da ciò che scrive di lui il fratello – un Cavour «assez découragé et fatigué des affaires» oppure «accablé des fatigues» – o da ciò che lui stesso confessa a Bianca, «un ami dont le cheveux grisonnent et que le travail rend souvent soucieux et morose», «precocemente invecchiato», accasciato dai «disgusti divorati in silenzio». Chi conosce il retro della vita di Camillo, è autorizzato a pensare che la stanchezza abbia contribuito a finirlo.
La seconda ipotesi.
Che l’abbiano avvelenato. Uscì, una decina d’anni dopo la morte, un librettino anonimo – Cavour avvelenato da Napoleone III. Documenti storici di un ingrato, Torino 1871 – in cui si sosteneva la tesi del veleno, somministrato a casa di Bianca da un’amica dell’amante prezzolata dai francesi. Nell’opuscolo si racconta che la Ronzani morì a Parigi due anni dopo il conte, e in miseria. L’autore anonimo non rimanda ad alcun documento, dunque tutto il suo racconto – dal punto di vista scientifico – è poco più che una curiosità. E tuttavia... Non m’è mai piaciuto quell’ultimo messaggio di Napoleone, in cui si fa cenno alle «ragioni di salute». Non mi piace che di Bianca si sappia tanto poco e che sia sparita così totalmente dopo la morte di Camillo. Se tu avessi voluto mettere una spia alle costole di Cavour chi avresti scelto?
Figuriamoci, la Ronzani ci andava addirittura a letto.
E di lettere sue non ne sono state trovate. Certo la famiglia le avrà distrutte tutte... Del resto, quando morì la Castiglione, i servizi francesi e italiani provvidero a far sparire da casa sua tutto quello che doveva sparire.
Il mandante non avrebbe potuto essere Vittorio Emanuele?
Certo, e quasi per le stesse ragioni. Senza Cavour tra i piedi, il re d’Italia e l’imperatore di Francia s’illudevano che avrebbero avuto mano libera nel nostro paese. La Ronzani, con il re, c’era probabilmente anche andata a letto.
C’è ancora qualche Cavour in circolazione, comunque? Magari qualche Benso?
Gustavo morì nel ’64 e Ainardo, ultimo marchese di Cavour, nel ’75, senza figli. Ainardo, malato di nervi e di malinconia, distrusse carte e patrimonio di famiglia. Mise anche in vendita il vecchio palazzo di Torino costruito all’inizio del ’700. La marchesa Alfieri, ossia Giuseppina, figlia di Gustavo e sorella di Ainardo, ebbe due figlie, Luisa e Adele. Adele non si sposò. Luisa andò moglie al marchese Emilio Visconti Venosta e gli diede cinque figli. La femmina, Paola, morì bambina. Dei quattro maschi, uno solo, Giovanni, s’ammogliò, con la marchesa Margherita Pallavicino Mossi. Lui morì nel 1948 e lei se n’è andata, vecchissima, nel 1982. Non ebbero figli. Sicché, possiamo affermarlo con assoluta sicurezza, non gira ormai più per il mondo né una goccia di sangue dei Benso né una goccia di sangue dei Cavour
da: Giorgio Dell’Arti, Cavour. Vita dell’uomo che fece l’Italia. Marsilio, 2011