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 2015  agosto 13 Giovedì calendario

È arrivato il momento di rivalutare Lyndon Johnson? Il docente di Princeton Julien Zelizer spiega in un saggio perché la sua Casa Bianca può essere paragonata a quella di F. D. Roosevelt

C’era un tempo nel quale Casa Bianca e Congresso riuscivano a convergere su obiettivi e indirizzi comuni. Un tempo che appare lontano, sbiadito in un passato indefinito. Quali i termini della collaborazione tra i poteri dello Stato all’interno del pluralismo costituzionale? Come circoscrivere i limiti dei contendenti? E soprattutto quale dialettica definisce il rapporto tra antagonismo e collaborazione, tra identità di parte (democratici e repubblicani) e scelte condivise? Dove finisce la prima e dove inizia l’interesse generale, quell’insieme di priorità e orizzonti che costruiscono e rafforzano una comunità nazionale?
Un libro ha il pregio di restituirci con passione e rigore lo spirito di allora (Julien E. Zelizer, The Fierce Urgency of Now: Lyndon Johnson, Congress and the Battle for the Great Society, Penguin Press, 2015) e il peso di tali interrogativi nella storia degli Stati Uniti. La domanda che attraversa pagine di analisi e giudizi dense di esempi circostanziati riguarda la natura del possibile vincitore. Chi ha il merito di ottenere risultati in una sfida tra poteri? Chi può alzare con orgoglio i propri vessilli? Chi giudica gli esiti finali e soprattutto quali eredità si spingono fino alle generazioni successive?
Due i momenti decisivi per mettere a fuoco l’efficacia del rapporto tra Congresso e Casa Bianca (l’autore, docente a Princeton, ha dedicato nel 2004, al Congresso un prezioso studio antologico) nei passaggi chiave del Novecento. La tesi proposta appare netta e coraggiosa. La risposta al quesito sul vincitore e sulla qualità della vittoria finale è emersa con chiarezza solo in due momenti, due intervalli del lungo secolo americano. Il primo coincide con la fase iniziale del New Deal quando le proposte d’intervento sull’economia di Franklin D. Roosevelt vennero rapidamente trasformate in leggi dal Congresso e accolte favorevolmente da una nazione traumatizzata dagli effetti della grande depressione. Il secondo passaggio – meno scontato ma più qualificante – è quello dei primi Anni Sessanta, dopo l’uccisione del presidente Kennedy. In quel decennio, almeno fino alle elezioni di Midterm del 1966, il Presidente Johnson e il Congresso diedero vita a una stagione di straordinaria produttività legislativa, un’attività frenetica; un riformismo profondo capace di intervenire in ambiti e contesti controversi, intoccabili e accuratamente evitati dalle classi dirigenti.
La chiave di lettura della dialettica tra gli estremi rischia di portare fuori strada; anche le lenti del confronto tra le forze politiche non conducono molto lontano. Del resto il Partito democratico tra il 1932 e il 1964 si è aggiudicato sette su nove campagne presidenziali potendo contare su una quasi ininterrotta maggioranza nella Camera e nel Senato. Ma il dato politico non è sufficiente, non dice abbastanza su quella rara capacità di incidere, governare, cambiare lo stato delle cose presenti. Su un altro versante non regge l’immagine di una presidenza a carattere imperiale, di un potere legittimo, onnicomprensivo e incontrastabile.
La natura del potere democratico è composita, fatta di pesi e contrappesi, assomiglia a un organismo in perenne mutazione, sempre alla ricerca di nuovi traguardi. È la natura stessa della democrazia che delinea contenuti e potenzialità dei partecipanti.
Cosa distingue maggiormente Lyndon B. Johnson da chi lo ha preceduto e seguito al vertice del potere federale sono le profonde radici di uomo del Congresso: dodici anni alla Camera e altri 12 al Senato dove da leader della maggioranza si fece apprezzare per la capacità di costruire intese e compromessi, per il suo dialogo continuo con amici e avversari e per la volontà ostinata di tessere relazioni durevoli.
Un esercizio faticoso e continuo, un valore aggiunto quando viene chiamato alla successione di JFK. Diventa l’erede di sogni e prospettive, riesce così a costruire un clima di collaborazione e intesa con il Congresso nelle sue diverse componenti: pragmatismo e grandi ideali si danno la mano per un tratto di strada forse troppo breve nel cammino interrotto della great society statunitense. Chi pensava che la collaborazione tra competitori, la proposta di una bipartisanship ispirata al bene del Paese fosse una vergogna impresentabile viene presto sconfitto o ridimensionato. La difesa della purezza identitaria non si addice alle sfide della democrazia, al suo lento cammino di miglioramenti graduali.
Non a caso Barack Obama lo ha scelto come interlocutore a distanza nei passaggi delicati della riforma sanitaria o nelle sfide sui diritti civili o sull’integrazione. A ben guardare quella concezione della democrazia come itinerario continuo delle cose possibili è ancora un antidoto potente contro le sirene della demagogia o i richiami striscianti di vecchi e nuovi populismi.