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 2015  agosto 13 Giovedì calendario

Quel marziano di Andrea De Carlo nell’Italia degli anni di piombo. Nel 1981 il suo esordio, “Treno di panna” fu rifiutato da Einaudi ma poco dopo pubblicato grazie a Calvino. «Quello che mi ha salvato è che non ero quasi consapevole delle polemiche sulla fine del romanzo. Giravo il mondo con la macchina fotografica»

«Quello che mi ha salvato è che non ero quasi consapevole delle polemiche sulla fine del romanzo, ma in compenso continuavo a leggere molto, soprattutto russi, francesi e americani». Andrea De Carlo trascorse gli Anni Settanta facendo fotografie e scrivendo storie che non avrebbe mai pubblicato, e arrivò non ancora trentenne al tramonto di quell’era ideologica con Treno di panna, un libro che uscì nel 1981 mentre la narrativa italiana cambiava di segno, quasi all’improvviso, come in una sorta di liberazione: ed è rimasto fra quelli che hanno segnato l’epoca e la svolta.
Soffiò un vento di libertà, abbastanza vigoroso da poter abbracciare Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino e Il nome della rosa di Umberto Eco, e intanto una nuova generazione di scrittori si affacciò sulla scena riproponendo quasi con ingenuità la voglia di narrare, di cercare con la letteratura i segni del mondo. Era una rivoluzione gentile, o per usare una metafora che si sarebbe imposta in meno di un decennio, di velluto. E non del tutto incontrastata. Italo Calvino pubblicò Treno di panna da Einaudi scrivendo nella prefazione che «La giovinezza è tante cose, anche una particolare acutezza dello sguardo che afferra e registra un enorme numero di particolari e sfumature; un’insaziabilità degli occhi che bevono lo spettacolo del mondo multicolore…», ma la prima risposta che il giovane scrittore ricevette dallo Struzzo fu un gentile rifiuto. E fu, ricorda lo scrittore, anche la sola risposta.
Le bocciature
«C’erano nel cassetto due romanzi, ma poco soddisfacenti, che avevo deciso di tenere per me. Facevo esperienze di vario genere, soprattutto di fotografia, come assistente di Oliviero Toscani. Ma con Treno di panna capii che avevo trovato la mia voce. Mi sentivo pronto. Detto questo, non sapevo assolutamente nulla del mondo dell’editoria, così feci delle copie e le mandai qui e là, alle case editrici più importanti, le solite insomma. Il risultato fu il vuoto totale: non mi scrissero neanche per dirmi di no». La sua traversata del deserto era stata condotta in solitaria, senza far riferimento a gruppi di scrittori, senza cenacoli o contatti («non ci ho mai creduto») e ora ne pagava il prezzo.
Come arrivò a Calvino, il mito di quegli anni? «Mio padre lo conosceva, però era l’ultima persona a cui avrei potuto pensare. Avevo letto con entusiasmo Il barone rampante, a scuola, ma per me era un grande scrittore in una torre d’avorio inaccessibile, non avrei mai osato. A un certo punto, però, un amico si propose di portare il mio dattiloscritto all’Einaudi. Niente di che, lo avrebbe lasciato in portineria». Questa volta fu letto. «E bocciato. Ricevetti una lettera di Natalia Ginzburg, dopo qualche mese. Un cortese rifiuto: lo stile era interessante, mi diceva, ma il personaggio principale era piuttosto antipatico». Le scrissi a mia volta, ringraziandola: era l’unica, fino a quel momento, che mi avesse preso sul serio. Passarono poche settimane, e accadde qualcosa di incredibile...».
Un eroe antipatico?
Ma noi ci fermiamo un momento sul personaggio. Ovvero il protagonista Giovanni Maimeri, che ospite di amici trascorre un mese a Los Angeles, si innamora, attraversa con partecipe distacco il mondo tumultuoso del cinema, degli attori, delle feste, armato soprattutto del suo sguardo e della sua macchina fotografica. È un viaggio d’iniziazione nell’America più favolosa, tra giungla e paradiso. Nulla di più lontano dall’Italia deli Anni di piombo. «L’aspetto più bello, da esordiente, era la mia ingenuità rispetto al mondo. Continuo a credere che lo scrittore più puro non ha idea di chi sarà il suo lettore. E io scrivevo semplicemente perché non potevo farne a meno».
Il rifiuto fu una ferita profonda? «Lo sarebbe stata se fino ad allora fossi vissuto nel pantheon degli scrittori italiani. Credo che un no ti possa ferire se viene da qualcuno che conosci, ammiri, stimi; o perché sei presuntuoso. Io non sapevo, punto e basta. Non avevo mai letto la Ginzburg, ero estraneo a tutto». E lei dice, è stata la sua fortuna. «Nel giro di qualche settimana arrivò un’altra lettera, in cui mi si diceva che avevo capito male, che il libro andava bene. Controllai, avevo capito benissimo; ma intanto era successo che lo aveva letto Calvino, e gli era piaciuto».
Senza maestri
La critica, per esempio Filippo La Porta, ha parlato di una giovane narrativa degli anni Ottanta come di qualcosa che non ha padri né maestri riconosciuti, e «sembra nascere da se stessa o, in alcuni casi, da tensioni e umori sociali che poco hanno a che fare con il letterario». Si riconosce? «La consapevolezza è venuta dopo. A me bastava sapere che il libro mi corrispondeva, ed era molto diverso da ciò che si andava pubblicando in giro. Era il prodotto di una visione personale, individualistica e un po’ lunare. Ripeto, non avevo molte informazioni, e questo mi ha salvato».
Fu un successo? «Cinquemila copie, e il doppio per il secondo libro, Uccelli da gabbia e da voliera. L’editore mi aveva dato 500 mila lire di anticipo, poi però fallì e quindi non ci fu nessun guadagno. Ma fu un’esperienza meravigliosa. Anche solo tenere il libro in mano, in quella bellissima edizione, con la copertina che avevo io stesso concepito, una illustrazione alla David Hockney. Si aprirono nuove strade, per esempio Federico Fellini mi propose di collaborare come assistente alla regia. Ero felice. Solo il terzo romanzo, Macno, mi ha aperto le porte di un pubblico più vasto. E fatto storcere il naso a qualche critico». Un’altra svolta, anche editoriale. Con Macno lei passò alla Bompiani, che continua a pubblicare con largo successo tutti i suoi libri. E magari aveva rifiutato Treno di Panna? Francamente non ricordo. Einaudi, allora, fu la soluzione ideale».