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 2015  agosto 13 Giovedì calendario

Breve storia dell’Economist, dal 1843 ad oggi. Articoli anonimi, niente tesi preconcette e una scommessa forte sul digitale. Così è diventato una delle testate più autorevoli al mondo capace di vendere ogni settimana 1,6 milioni di copie in 200 Paesi

Il primo numero dell’Economist fu pubblicato a Londra il 2 settembre del 1843, un mese prima che la statua di Nelson fosse posta sulla colonna di Trafalgar square e che Charles Dickens ultimasse il suo libro più toccante, «A Christmas Carol». Lo aveva fondato James Wilson, un impetuoso scozzese che conosceva le opere di Adam Smith e aveva deciso di battersi per l’abrogazione della tassa sul grano, un balzello che aumentava il prezzo del pane mentre metà degli abitanti di Londra moriva di fame.
Già in quel primo numero c’era tutto quello che «The Economist» avrebbe in futuro rappresentato: indipendenza, liberismo, difesa delle proprie idee e coraggio di cambiarle. E anche la convinzione che il principio da difendere sia in fondo sempre uno solo: non bisogna mai togliere libertà e soldi alla gente se c’è un’altra soluzione possibile.
Oggi il settimanale, che vuole continuare a essere chiamato «newspaper», giornale, vende in 200 paesi 1,6 milioni di copie, alle quali si aggiungono circa 200 mila abbonati digitali, 10 milioni di follower su Twitter e 5,6 milioni su Facebook. Il vero successo in termini di diffusione è arrivato da poco, ma ha confermato quello che gli esperti dicono in tutti i convegni sull’editoria: nell’era di Internet, sopravvive e genera utili solo chi è capace di mantenere alta la qualità dell’informazione che fornisce. La direttrice, «Zanny» Minton Beddoes, ha annunciato che l’ampliamento delle attività digitali sarà al centro dei suoi pensieri, visto che nel mondo sempre più persone sono in grado di leggere in inglese. Dopo Espresso (analisi quotidiane sui fatti), Global Business Review (selezione di articoli in inglese e cinese) e Economist Films (brevi documentari) arriveranno presto altre applicazioni che incrementeranno i già tangibili ricavi delle attività digitali. L’Economist è diventata una delle pubblicazioni più autorevoli del mondo perché è un giornale davvero particolare, nel quale ad esempio nessun giornalista firma l’articolo che scrive, che esce anonimo. Cancellare la firma è il peggiore affronto che si possa fare all’ego di un giornalista, ed è vero che molti lettori cercano nei giornali la «firma» che preferiscono. Ma in un giornale «anonimo», come spiegò una volta per tutte Geoffery Crowther, al timone dal 1938 al 1956, «…il direttore non è più il padrone. Diventa il servitore di qualcosa più grande di lui, il giornale». L’assenza di firme fa in modo che l’Economist abbia una scrittura chiara e omogenea, perché non sono più necessarie stravaganze per farsi notare, e che gli articoli possano essere rimaneggiati senza generare proteste e incidenti. Lo spazio di discussione è molto ampio, con riunioni aperte a tutti. Ma quando si tratta di scrivere, è la linea del giornale che deve prevalere.
L’Economist ha sempre deciso volta per volta: ha appoggiato le guerre in Vietnam, in Iraq e Afghanistan, ma è anche stato favorevole alle nozze gay, al controllo delle armi e alla liberalizzazione delle droghe. Ha appoggiato la Thatcher ma anche Blair, ha sostenuto Reagan e poi Clinton. In un momento di crisi religiosa, ha pubblicato persino un necrologio di Dio. Non ha tesi preconcette e inamovibili: ogni novità va giudicata nel contesto nel quale si manifesta. Nella redazione, dicono i giornalisti, si lavora con l’obiettivo che, se una persona rimanesse sola in un’isola e avesse la possibilità di farsi lanciare da un aereo ogni settimana un solo giornale, quel giornale debba essere l’Economist. Partecipare alla lotta tra l’intelligenza che spinge in avanti e l’ignoranza che frena il progresso era il motto di James Wilson: un campo nel quale c’è sempre stato, e ci sarà ancora a lungo, molto da fare.