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 2015  agosto 13 Giovedì calendario

Non solo la Troika, la Grecia deve fare i conti anche con i profughi. Nelle isole del Dodecaneso arrivano a centinaia. Ad Agathonisi, dove sono più numerosi dei greci, l’unico poliziotto li raduna nel cortile della minuscola caserma e lì stanno fermi un giorno sotto il sole e una notte sotto le stelle, ammassati, senza medicine, cibo, né interpreti. Vengono contrassegnati sul dorso della mano con un numero, scrivono il loro nome su un foglio e aspettano di essere caricati sul traghetto che li porterà a Samos e poi ad Atene. Una volta raggiunta la capitale, ognuno andrà per la sua strada. Molti dicono di voler raggiungere la Germania: «In macchina, in treno, a piedi, attraverso Macedonia, Serbia, Ungheria e Austria»

Non c’è bisogno di una giornata particolarmente chiara per vedere la costa turca dall’isola di Agathonisi. Con un gommone sono solo tre ore di viaggio. E di gommoni sugli scogli di quest’isola del Dodecaneso ce ne sono tanti. Tagliati dagli stessi profughi non appena sbarcano, per non essere ricacciati in mare. Arrivano tutte le notti, con una regolarità che sgomenta. Quando raggiungono il paese, si percepiscono appena da un vocio sommesso, dall’odore di sudore e da uno scalpicciare stanco. Arrivano intorno alle quattro del mattino. Alcuni scendono dall’unica motovedetta della Guardia costiera che pattuglia cinque isole, guidata da due militari che da mesi dormono solo poche ore per notte e che, a differenza di Lampedusa, non hanno né guanti né mascherine.
Altri profughi trovano da soli la strada che si inerpica fra le rocce. Gli abitanti di Agathonisi, 150 in tutto, sentono arrivare «gli stranieri» dai loro letti. Li aspettano ogni notte insonni, con il cuore che batte della stessa inquietudine dei profughi. Due paure che si misurano e si tengono a distanza. «Lo scorso inverno un gruppo di eritrei e somali è entrato nelle nostre case e le ha sporcate tutte», racconta Panaiota, 70 anni. «Sono più numerosi di noi e le donne anziane di notte hanno paura». Anche Maria, che pure nel suo market vende ai profughi benestanti acqua, pane e biscotti, li sopporta a malapena.
L’unico poliziotto del paese li raduna nel cortile della minuscola caserma e lì stanno fermi un giorno sotto il sole e una notte sotto le stelle, ammassati promiscuamente, senza medicine, cibo, né interpreti. Fra di loro non si conoscono. Non si parlano. Vengono contrassegnati sul dorso della mano con un numero, scrivono il loro nome su un foglio e aspettano di essere caricati sul traghetto che li porterà, assieme ai turisti ma in aree separate, a Samos e poi ad Atene. Una volta raggiunta la capitale, ognuno andrà per la sua strada.
C’è chi tra i turisti porta ogni giorno acqua e cibo per i bambini entrando così in contatto con un’umanità variegata: borghesi benestanti che si fanno il selfie oppure disperati senza denti, con gli abiti logori. Giovani brillanti che hanno voglia di parlare in inglese oppure donne sospettose che rifiutano persino un pacco di assorbenti. In tutti c’è la dignità che teme di essere ferita. Digiuni e sfiniti dal caldo, accettano il cibo senza spintonare, mettendo una mano sul cuore per ringraziare.
Sono quasi tutti siriani e tutti dicono di voler raggiungere la Germania. «In macchina, in treno, a piedi, attraverso Macedonia, Serbia, Ungheria e Austria», afferma un ragazzo di Damasco. Sa anche del muro che stanno costruendo in Ungheria. E se gli si ribatte che sono troppi, che la Germania non li vuole, risponde sicuro: «Se lavori ti vogliono, e io voglio lavorare».
Ad Atene, invece, si incontrano soprattutto afghani. In 600 hanno piantato minuscole tende-igloo nel parco di Pedion Areos, a pochi metri dal Museo archeologico nazionale. Non conoscono l’inglese e hanno imparato un po’ di greco. Molti sono qui anche da nove mesi. L’atmosfera è surreale: una repubblica autonoma autogestita e autoreclusa dentro i cancelli aperti del parco. Una città precaria in cui si muovono i volontari di «Steki Metanaston», un centro sociale del vicino quartiere anarchico di Exarchia. «I rifugiati pensano che siamo pagati dall’Unhcr e solo alcuni si uniscono a noi per aiutarci nelle pulizie» spiega Leonidas, 28 anni, che con guanti e mascherina getta candeggina davanti alle toilette di plastica. «Sì io ho un lavoro, non sono disoccupato. Vengo qui perché me l’ha chiesto un amico che li aiuta con le pratiche per richiedere asilo».
Nel fine settimana dovrebbero essere trasferiti tutti a Eleainosas, in periferia, in 50 container con bagno e cucina. Ma la sensazione generale è che questo inverno ad Atene succederà qualcosa di molto più grosso della rivolta di Kos di martedì. I più poveri, quelli che non hanno i soldi per proseguire il viaggio, lotteranno per la sopravvivenza con le migliaia di senzatetto ateniesi; frugheranno negli stessi bidoni della spazzatura in cerca di cibo e si contenderanno le poche cure mediche offerte dalle Ong.
A Bodrum, in Turchia, in questo momento ci sono migliaia di profughi in attesa di approdare nelle isole del Dodecaneso. Proprio in una di queste, a Patmos, san Giovanni ha avuto la visione dell’apocalisse.