Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2015
«La Grecia deve disfarsi una volta per tutte delle sue prassi corporativiste che ostacolano qualsiasi innovazione o spirito imprenditoriale, altro che prendersela col falso mito dell’austerità». Il premio Nobel Edmund Phelps spiega perché una visione meccanicistica per la quale la prosperità è una questione di occupazione e l’occupazione a sua volta è determinata dalla “domanda”, è negativa per la prosperità stessa
Alcuni economisti non tengono in gran conto il pensiero moderno secondo il quale la prosperità di un paese dipende dall’innovazione e dallo spirito imprenditoriale. Aderiscono preferibilmente a una visione meccanicistica per la quale la prosperità è una questione di occupazione e l’occupazione a sua volta è determinata dalla “domanda” – la spesa pubblica, i consumi delle famiglie, la domanda di investimenti.
Per ciò che concerne la Grecia, questi economisti sostengono che lo spostamento della politica fiscale in direzione dell’“austerità” – un settore pubblico più piccolo – ha implicato una grave penuria della domanda e di conseguenza una depressione. Quest’affermazione, tuttavia, fraintende la realtà storica e ingigantisce il potere della spesa pubblica.
Una buona parte del calo occupazionale in Grecia si è verificato prima dei drastici tagli alla spesa tra il 2012 e il 2014 – senza alcun dubbio a causa del crollo della fiducia nel governo. Tra il 2009 e il 2012 in Grecia la spesa pubblica trimestrale è salita a una fase di ristagno di circa 13,5 miliardi di euro (14,8 miliardi di dollari), prima di scendere tra il 2014 e il 2015 a circa 9,6 miliardi di dollari. Nondimeno, il numero dei lavoratori con un posto di lavoro ha raggiunto il suo massimo di 4,5 milioni nel 2006-2009, ed è precipitato a 3,6 milioni nel 2012. Quando la Grecia ha iniziato a ridurre il suo budget, il tasso di disoccupazione – il 9,6 per cento della forza lavoro attiva nel 2009 – era già salito quasi al suo recente livello del 25,5 per cento.
Questi dati contrastano fortemente con l’ipotesi secondo la quale l’“austerità” avrebbe portato la Grecia alla sua drammatica situazione attuale: i dati indicano che in Grecia la disoccupazione di massa odierna non può essere imputata a un cambiamento rispetto alle ingenti spese del quinquennio 2008-2013.
Anche un altro dato proietta qualche dubbio sul fatto che alla Grecia sia stata effettivamente imposta l’austerità: la spesa pubblica sicuramente è diminuita, ma soltanto nei soliti settori e al punto in cui già si trovava. I 9,6 miliardi di dollari del primo trimestre di quest’anno, in effetti, costituiscono una cifra di gran lunga più elevata di quanto fosse ancora nel 2003. Di conseguenza, il presupposto dell’austerità appare errato. La Grecia non si è discostata dalle normative fiscali del passato: vi ha semplicemente fatto ritorno. Invece di descrivere come “austere” le attuali spese pubbliche, sarebbe più corretto considerarle la fine di anni di dissolutezza fiscale, culminata nel 2013 quando il deficit di bilancio del governo raggiunse il 12,3 per cento del Pil e l’indebitamento pubblico schizzò al 175% del Pil.
La “scuola di pensiero della domanda” potrebbe rispondere che, a prescindere da dove si collochi l’austerità fiscale oggi e se esista, una spesa pubblica più elevata (finanziata, ovviamente, dal debito) darebbe uno slancio duraturo all’occupazione. L’esperienza recente della Grecia, tuttavia, indica ben altro. Il considerevole aumento della spesa pubblica dal 2006 al periodo 2009-2013 di fatto ha determinato incrementi dell’occupazione, che però non sono stati mantenuti.
Il vero punto critico è che il governo dovrebbe emettere obbligazioni per finanziare la sua spesa in eccesso. Ipotizzando che gli investitori stranieri abbiano scarsa volontà di acquistare tali bond, a farlo dovrebbero essere i greci. In un’economia non attrezzata per la crescita, la ricchezza delle famiglie in rapporto ai salari prenderebbe il volo e l’offerta di manodopera si ridurrebbe, provocando così una contrazione dell’occupazione.
Spendere di più, di conseguenza, non è un toccasana per le difficoltà contingenti della Grecia, proprio come spendere di meno non è stata la causa delle medesime. Qual è la soluzione, dunque? Nessuna ristrutturazione del debito, e neppure la sua cancellazione, sarà mai sufficiente a raggiungere la prosperità (sotto forma di bassa disoccupazione ed elevata soddisfazione professionale). Tali misure servirebbero soltanto a rimettere in moto la spesa pubblica. A quel punto il corporativismo sommamente invalidante per l’economia – favoritismi e lottizzazioni nel settore pubblico, interessi acquisiti e irriducibili élite in quello privato – guadagnerebbe nuove prospettive di vita. La sinistra europea potrà anche essere favorevole a tutto ciò, ma difficilmente una cosa del genere sarebbe nell’interesse dell’Europa.
La soluzione, dunque, deve trovarsi nell’adozione di buone riforme strutturali. A prescindere dal fatto che le riforme pretese dai membri della zona euro accrescano o riducano le chance di vedersi rimborsare i prestiti erogati, questi creditori hanno un interesse politico ed economico nella sopravvivenza e nello sviluppo dell’Unione monetaria. E dovrebbero anche essere pronti ad aiutare la Grecia a coprire le spese correlate ai cambiamenti essenziali da apportare.
In ogni caso, è la Grecia stessa a doversi fare carico delle proprie riforme. Nel fatto che il Primo ministro Alexis Tsipras sia disposto a sostenere questa causa c’è qualche segnale incoraggiante, ma egli avrà bisogno di alcuni suggerimenti per individuare le riforme fondamentali. La Grecia deve disfarsi una volta per tutte delle sue prassi corporativiste che ostacolano qualsiasi innovazione o spirito imprenditoriale che dovesse emergere.
Per creare e coltivare una molteplicità di innovatori creativi e di imprenditori dinamici è indispensabile abbracciare una visione audace della vita, propizia alla creatività e alla scoperta.