Corriere della Sera, 13 agosto 2015
Le reazioni del made in Italy (cinese). La svalutazione del 3,5 per cento in 48 ore non preoccupa le aziende italiane che hanno aperto lì stabilimenti. Versace sostiene che «c’è andata bene quando l’euro era del 25% più caro di oggi e vendere all’estero era molto più difficile, perché non dovremmo riuscirci adesso?». Pirelli e Luxottica restano stabili in Borsa e Piquadro, non si dice preoccupato (anche se il suo stabilimento di Zhongshan ha le ore contate): «Svalutare solo del 3% per i cinesi è stato poco più che un segnale per dire che potrebbero farlo ancora di più in futuro. Ma se poi non lo fanno, che senso ha dare questo segnale?»
Marco Palmieri aveva 35 anni quando realizzò ciò che allora, nel duemila, sembrava l’imperativo di ogni imprenditore in Occidente: aprire uno stabilimento in Cina. Era l’epoca del mondo «piatto» che poco dopo Thomas Friedman del New York Times avrebbe descritto, un sistema privo di attriti finanziari o tensioni geopolitiche, nel quale gli ostacoli potevano essere ignorati grazie alle tecnologie. In quella che oggi sembra una lontana età dell’oro, la corsa delle imprese europee a produrre in Cina era diventata uno dei simboli della modernità.
Quindici anni più tardi lo stabilimento di Piquadro a Zhongshan, nel Guangdong, ha i mesi contati. L’azienda di borse e valigie di qualità di cui Palmieri è fondatore e uomo-guida, si è affermata comunque come una storia di successo del made in Italy. In Cina è arrivata ad avere 400 addetti e poco meno di metà dell’intera produzione (il resto è a Gaggio Montano, vicino a Bologna). Eppure Palmieri tre anni fa ha iniziato a notare in quegli impianti qualcosa che conosceva dagli anni della sua giovinezza emiliana: «I costi salivano, perdevamo competitività. Ogni anno il governo imponeva di aumentare il salario minimo del 20% – dice —. E ho pensato che quando a suo tempo l’Italia si trovava in situazioni simili, regolarmente svalutava». Palmieri non si è sorpreso dalla scivolata dello yuan di questi giorni, poco più del 3,5% sull’euro in 48 ore. Da tempo aveva capito che era inevitabile. Solo che non pensa affatto sia lontanamente abbastanza per fargli cambiare idea: la Cina ha già perso troppo terreno.
Un piccolo movimento di due giorni dello Renminbi yuan non basta a correggere squilibri accumulati per molti anni. Ma con un’economia da 11.200 miliardi di dollari, anche solo questo per l’Europa equivale allo spostamento tettonico che alza uno tsunami, e non solo sui mercati finanziari. La Cina è il decimo cliente dell’export italiano, per circa 12 miliardi di euro (dati relativi al 2013).
Eppure questa volta l’area più esposta al contagio va cercata nel Nord Europa: l’anno scorso la Germania ha spedito verso Cina beni e servizi per 74,5 miliardi di euro, circa un quarto sotto forma di auto o pezzi di auto da montare in loco, e la Repubblica popolare è diventato il quarto maggiore cliente della Repubblica federale. Per la prima volta nel 2014 la Germania era arrivata persino a vendere alla Cina prodotti per una somma quasi pari a quanto comprava dalla Cina: che un medio Paese ad altissimi costi di produzione azzeri il deficit commerciale con uno sterminato Paese a basso costo, di per sé, è stato un evento storico.
Potrebbe anche restare un evento unico. Dal 2011 l’euro si era svalutato sullo yuan di quasi un terzo, aiutando soprattutto l’export tedesco; ma da questa settimana anche Pechino si sente costretta a entrare, a piccoli passi, nella guerra delle valute. Comprerà meno dall’Europa, le venderà di più a prezzi più bassi e dunque esporterà deflazione verso occidente pur di tutelarsi e difendere posti di lavoro nelle fabbriche di Guangzhou (Canton) o di Shanghai. La mossa della Cina crea così una situazione paradossale: la Germania, o almeno i suoi grandi gruppi come Daimler, Bmw, Bayer, Basf o Siemens, dipenderanno sempre di più da quelle misure espansive della Banca centrale europea che proprio la Bundesbank detesta. Gli acquisti massicci sui mercati da parte della Bce, sempre con il voto contrario della Bundesbank, hanno aiutato l’euro a deprezzarsi e l’export europeo a restare competitivo. E presto proprio il Made in Germany ne avrà ancora più bisogno per difendersi dalla pressione cinese.
Non tutti però sono preoccupati. Santo Versace, 60 anni, presidente del gruppo di famiglia, pensa che la moda italiana sia sopravvissuta a situazioni più difficili e supererà anche questa. «La Cina l’abbiamo già affrontata in ben altre condizioni – dice —. C’è andata bene quando l’euro era del 25% più caro di oggi e vendere all’estero era molto più difficile, perché non dovremmo riuscirci adesso?».
In Italia i gruppi che realizzano i fatturati più alti in Cina per lo più sono in grado di difendersi, perché producono in loco. Lo fa Pirelli, che infatti ieri è rimasta stabile in Borsa, e lo fanno anche Luxottica, Prysmian o Danieli. Solo Prada realizza un terzo delle sue vendite nel Paese, senza però avervi veri siti produttivi.
Neanche Palmieri, il patron di Piquadro, è preoccupato. Ricorda l’impegno di Pechino a stabilizzare la moneta da oggi in poi, eppure si chiede: «Svalutare solo del 3% per i cinesi è stato poco più che un segnale per dire che potrebbero farlo ancora di più in futuro. Ma se poi non lo fanno, che senso ha dare questo segnale?».