Corriere della Sera, 13 agosto 2015
«Sono tutti truffatori, i nazionalisti, i comunisti, i giapponesi... anche Mao e Deng, tutti uguali, tutti sempre a imbrogliarci». La rabbia degli investitori cinesi. Le statistiche dicono che ci sono circa 90 milioni i cittadini che alimentano la Borsa. E poi altri milioni di giovani della nuova classe media (stimata in 235 milioni di anime) che hanno creduto nel mercato e hanno impegnato i risparmi in titoli di gruppi industriali che oggi faticano per evitare la bancarotta
La svalutazione dello yuan non sta facendo soffrire solo le Borse occidentali: anche gli investitori di Shanghai ieri hanno visto i loro titoli perdere mediamente l’1,6%, un’altra brutta giornata dopo le tre settimane di passione tra metà giugno e luglio. Gli analisti sono divisi: la manovra monetaria è un tentativo disperato di raddrizzare il transatlantico dell’economia cinese rilanciando le esportazioni che a luglio sono calate dell’8,3%? Oppure la fluttuazione dello yuan è un segnale al Fondo monetario internazionale per ottenere l’ammissione nel club esclusivo delle «valute di riserva»? Queste dispute da macroeconomia e geopolitica però non entrano nei calcoli e nelle ansie dei milioni di cinesi che giocano i loro risparmi in Borsa.
Per rendersi conto di che cos’è il mercato nella Cina seconda economia del mondo basta entrare in un’agenzia di intermediazione azionaria. Noi abbiamo fatto l’esperienza alla Dongzhimen China Securities di Pechino. Nessun broker in giacca scura, invece la sala è popolata da anziani, pensionati in canottiera simili ai nostri che d’estate cercano rifugio dal caldo nell’aria condizionata dei centri commerciali. Discorsi poco borsistici, piuttosto da bar sport: «Sono tutti truffatori, i nazionalisti, i comunisti, i giapponesi... anche Mao e Deng, tutti uguali, tutti sempre a imbrogliarci», grida un settantenne che ha appena visto i suoi titoli prendere una brutta bastonatura sulla piazza di Shanghai. Ci dice il suo nome, Peng, poi si preoccupa: «Non vorrei che mi succedesse qualcosa». Non c’è da credere che qualcuno abbia voglia di denunciarlo, il clima in sala è di depressione comune. «Io mi sono già tagliato un bel po’ di carne», dice un altro investitore deluso: l’espressione «ke rou», tagliare la carne, è sinonimo di vendita di azioni per limitare i danni del crollo. Solo qualcuno cerca di dimostrarsi sicuro: «Giornalista straniero eh? Ne sono venuti un mucchio qui nelle ultime settimane. Ma io non ho problemi: avevo investito 15 mila yuan a metà degli anni 90, non ho mai venduto le mie azioni e oggi sapete quanto valgono? 120-130mila yuan». Non sarebbe bello spiegare al pensionato che in vent’anni l’inflazione ha certamente sbriciolato il suo sogno di piccolo capitalista.
Le statistiche dicono che ci sono circa 90 milioni di cinesi come il signor Peng e i suoi compagni che alimentano la Borsa in Cina. E poi altri milioni di giovani della nuova classe media (stimata in 235 milioni di anime) che hanno creduto nel mercato e hanno impegnato i risparmi in titoli di gruppi industriali che oggi faticano per evitare la bancarotta. Alla fin fine, molte delle manovre economiche del Partito-Stato in Cina negli ultimi tempi sono un tentativo disperato di evitare dissesti che potrebbero aprire gravi crisi sociali.
Il presidente Xi Jinping oltre che a consolidare il suo potere finora si è dedicato come ogni buon tecnocrate comunista alla gestione dell’economia, seguendo il progetto di Deng
Xiaoping: crescita e benessere per i cinesi in cambio di legittimità per una leadership non eletta dal popolo. Per ottenere questa legittimazione dopo gli errori del maoismo Deng lanciò l’apertura al mercato. E per lo stesso motivo ora Xi e i suoi pianificatori promettono di riformare ancora il sistema facendo evolvere la Cina da Fabbrica del mondo a basso costo a un sistema produttivo moderno e sostenibile.
Ma quando la Borsa scende e il governo interviene per addomesticare il mercato, come sta succedendo da settimane in Cina, è poi lecito sospettare che anche la svalutazione dello yuan sia un modo per battere la concorrenza e rilanciare le esportazioni e non solo un lodevole sforzo per «seguire le fluttuazioni del mercato», come dice la Banca centrale di Pechino. C’è qualcosa, nell’economia cinese, che i dirigenti comunisti sanno e noi no.
E poi c’è un altro dubbio: una svalutazione a piccole dosi, come quella orchestrata da Pechino, secondo tutte le analisi non basta a far ripartire l’export in modo sensibile; per una manovra del genere servirebbe una svalutazione tra il 10 e il 30 per cento dal giorno alla notte. Mentre gli economisti si chiedono se Xi e i suoi uomini abbiano esaurito le formule magiche per la crescita, sul web i cinesi si lamentano: «Gli americani ci accusano di concorrenza sleale che li danneggia, ma io penso che la svalutazione abbia abbassato il nostro potere d’acquisto», scriveva ieri Wu in un post molto commentato.