Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2015
Dopo la mossa a sorpresa dell’altro ieri – la svalutazione dell’1,9% dello yuan –, ieri la banca centrale cinese ha fissato la parità ufficiale in ulteriore ribasso dell’1,6% a 6,3306 nei confronti del dollaro. I mercati occidentali ne risentono e le borse asiatiche hanno chiuso in negativo. Tokyo ha ceduto l’1,6%, Hong Kong il 2,4%, Shanghai l’1,06%, Sydney l’1,7%, Singapore il 2,9 per cento (il peggior calo dall’ottobre 2011). Seul è riuscita a limitare la discesa allo 0,6% grazie ai titoli automobilistici
Il deprezzamento dello yuan cinese ai minimi da quattro anni nei confronti del dollaro destabilizza ancora di più i mercati internazionali di valute, azioni e materie prime: verso il termine di una giornata drammatica, le autorità di Pechino si sono viste costrette a un immediato dietro-front rispetto alla promessa – effettuata in contemporanea alla svalutazione di martedì, dichiarata “una tantum” – di lasciare libero campo alle forze di mercato nella determinazione dei livelli di cambio. Dopo la mossa a sorpresa dell’altro ieri (di fatto una svalutazione dell’1,9%), ieri la banca centrale cinese ha fissato la parità ufficiale in ulteriore ribasso dell’1,6% a 6,3306 nei confronti del dollaro, sottolineando in un comunicato deliberatamente rassicurante che non esistono le basi economiche o finanziarie per un sostenuto trend di deprezzamento della divisa. Ma è stata colta di sorpresa dalla reazione dei mercati, che hanno spinto lo yuan nel trading fin quasi sulla soglia del limite massimo consentito del 2% di ribasso rispetto al “midpoint” (e fin a ridosso di un cambio a 6,6 nell’offshore). Negli ultimi 15 minuti di contrattazioni, lo yuan ha improvvisamente recuperato parte del terreno perduto: secondo i trader, sono intervenuti grandi operatori finanziari pubblici a vendere dollari su sollecitazione della stessa banca centrale. Ad ogni modo, lo yuan quotava nel mercato offshore di Hong Kong in serata a 6,5442, in ribasso del 2,4% sulla chiusura di 6,387 a Shanghai: il maggior differenziale dall’inizio nel 2010 del trading fuori dalla Cina “mainland”.
Pensare che la giornata si era aperta con una pubblica email del Fondo Monetario Internazionale (con la raccomandazione di attribuirne il contenuto a un generico “portavoce”) che in sostanza benediceva le iniziative di Pechino come un “welcome step” verso l’assegnazione di un ruolo decisivo al mercato nella fissazione del cambio. Lo stesso “portavoce” sottolineava che entro due o tre anni al massimo lo yuan può e anzi dovrebbe diventare liberamente fluttuante.
Tra chi fa il tifo perché lo yuan resti ancora a lungo sotto occhiuta vigilanza, ci sono certamente i governanti dei Paesi asiatici emergenti che negli ultimi due giorni hanno visto le loro valute accusare un ribasso che non si registrava dai tempi della crisi asiatica del 1998. Non è andata tanto meglio alle Borse, visto che molti investitori hanno intravisto nelle mosse di Pechino un senso di panico per i segnali di forte rallentamento economico, il che ha rilanciato una avversione generale verso gli asset di rischio. La Borsa di Tokyo ha ceduto l’1,6%, Hong Kong il 2,4%, Shanghai l’1,06%, Sydney l’1,7%, Singapore il 2,9 per cento (il peggior calo dall’ottobre 2011). Seul è riuscita a limitare la discesa allo 0,6% grazie ai titoli automobilistici, in spolvero su dati di vendita positivi.
Ieri sono stati resi noti nuovi dati macroeconomici che confermano il rallentamento dell’economia cinese: a luglio la produzione industriale riduce la crescita al 6% dal 6,8% di giugno, mentre gli investimenti in asset fissi in aree non rurali passano a +11,2% nei primi sette mesi contro il +11,4 nel primo semestre e l’espansione delle vendite al dettaglio si riduce leggermente a +10,6. Era stato più traumatico il dato di sabato sulle esportazioni, in calo a luglio di oltre l’8%. Il fatto che la svalutazione pilotata dello yuan abbia seguito a ruota questa allarmante indicazione ha fatto pensare che la sua motivazione primaria stia proprio nella volontà governativa di sostenere la competitività internazionale del settore manifatturiero, da anni in declino rispetto ad alcuni Paesi del Sud-est asiatico che stanno diventando la destinazione privilegiata di nuovi investimenti manifatturieri esteri. Del resto, già ieri è emerso, secondo fonti di settore, che i produttori cinesi di acciaio non hanno perso tempi a tagliare i prezzi in risposta a uno yuan più debole, per poter smerciare ancora di più all’estero l’attuale eccesso di produzione. Il sospetto di svalutazione competitiva non appare un buon viatico per la visita del mese prossimo del presidente Xi Jinping a Washington, dove parte del Congresso appare sul piede di guerra. Ma, al di là dell’interpretazione più ovvia, prendono corpo valutazioni complesse delle iniziative di Pechino. Robin Brooks, capo strategist valutario di Goldman Sachs, ad esempio, ha evidenziato ieri che si tratta di una “mossa preventiva” in anticipazione del prossimo avvio della manovra di rialzo dei tassi americani da parte della Federal Reserve: «Per i policymakers cinesi, ha certo senso guadagnarsi una maggiore flessibilità prima del rialzo dei tassi Usa, in particolare in quanto negli ultimi mesi lo yuan ha stabilmente seguito l’andamento del dollaro». In sostanza, Pechino ha notato un recente apprezzamento della sua valuta nei confronti di altre divise regionali e si è cautelata di fronte a un probabile rafforzamento di questo trend. Un po’ come fece la Banca Nazionale Svizzera togliendo il vincolo al franco nei confronti dell’euro in anticipazione del quantitative easing della Bce. Così le turbolenze generalmente attese sui mercati in autunno sono state anticipate ad un agosto molto caldo.