Corriere della Sera, 12 agosto 2015
Capire Velázquez. L’artista che non «ha mai voluto essere pittore ma servitore del proprio re e che usa il pennello quando gli viene ordinato di farlo». Quando l’arte è un dono e non un modo di guadagnarsi da vivere
Capire Velázquez. D’accordo, ma quale? Quello di José Ortega y Gasset. Era ora, direbbe qualcuno. «Il Velázquez di Ortega è stato sdoganato, ma ci sono voluti decenni», scrive Giuseppe Mazzocchi nell’introduzione al libro Velázquez (Ibis, pagine 210, e 15) che raccoglie gli scritti del fondatore (1883-1955) della «Revista de Occidente» sul pittore andaluso (1559-1660).
Ortega y Gasset «sdoganato»? Eh già: la sua lettura di Velázquez è considerata dissacrante per una gloria nazionale. Qualcuno, però, lo giustifica. Non ritiene grave, infatti, che un filosofo ficchi il naso in «campi non suoi».
Partendo dal presupposto – che si incontra nelle Meditaciones del Quijote – che «io sono io e la mia circostanza; e se non la salvo, non salvo neppure me», il filosofo scandaglia tempi e luoghi (vale a dire le circostanze) di Velázquez, giungendo alla conclusione che il vero obbiettivo dell’artista non è «quello di fare il pittore, ma di ottenere un riconoscimento (sino alla patente di nobiltà)» che elevi il suo stato sociale.
Tant’è che Diego, vissuto alla corte del re di Spagna Filippo IV – quindi in una situazione ideale per poter lavorare tranquillamente – ha prodotto poco, rispetto a quanto avrebbe potuto, precisa Ortega y Gasset, il quale, non essendo uno storico dell’arte ma un letterato, non disgiunge la biografia dell’artista dalle opere. Che «non nascono nel vuoto, ma sono brandelli di esistenze umane e, perciò, esse stesse esseri viventi (…). Un uomo, infatti, si giudica in base al suo comportamento nei confronti del sistema di regole e di rapporti vigenti nell’ambiente in cui viene a trovarsi».
Sin dal primo saggio, che risale al 1913, il filosofo spagnolo ha un’idea ben precisa di Velázquez; ribadita anche in quelli successivi – del 1943, 1947, 1954 —; non importa se nati come corsi universitari o come saggi pubblicati a Berna, in un libro in tedesco o sulla «Revista de Occidente». Alla base di tutto, una grande libertà di pensiero e una notevole chiarezza di esposizione. Entrambe dovute alla sua condizione sociale o, come avrebbe detto lui stesso, alla sua «storia».
Ortega y Gasset nasce a Madrid, nel palazzo dove hanno sede redazione e tipografia de «El Imparcial», quotidiano di proprietà della madre, diretto dal padre (più o meno come avverrà, nel 1945, con Ignacio Vasallo Tomé a Valencia, che apre gli occhi nell’edificio dove il padre dirigeva «Levante»).
Il giornalismo ha un peso fondamentale non solo sulla scrittura (esprimersi in maniera semplice su tutto, per essere compreso: da qui, l’accusa di occuparsi di troppe cose e quindi di niente in maniera scientifica), ma soprattutto sulla mancanza di condizionamenti di qualsiasi tipo. Infatti Ortega y Gasset ha sempre scritto senza tener conto delle reazioni dei tradizionalisti. Lo dimostrano questi saggi su Velázquez, dove – come detto – egli sostiene che l’autore de Las meninas non «ha mai voluto essere pittore».
Il papa Innocenzo X invia all’artista una catena d’oro per ricompensarlo del celebre ritratto? Velázquez gliela rimanda, dicendo «che egli non è pittore, ma servitore del proprio re e che usa il pennello quando gli viene ordinato di farlo». Nota Ortega y Gasset: per avere la croce di Santiago (con relativo titolo nobiliare), durante l’indagine atta a «provare la sua limpidezza di sangue e la nobiltà della famiglia, i testimoni dichiarano che Velázquez non ha mai esercitato il mestiere di pittore, che è sempre vissuto con il decoro e l’atteggiamento di un nobile, che la sua pittura è un dono, una “grazia” e non un modo di guadagnarsi da vivere».