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 2015  agosto 12 Mercoledì calendario

La Grecia ha concluso un accordo a suo modo storico per l’ennesimo pacchetto di aiuti. La Cina si è limitata a svalutare sul dollaro la propria moneta dieci volte di meno rispetto all’euro. E ora i Paesi emergenti come la Russia, il Brasile o il Sudafrica sono in una morsa: la Cina non può essere più lo stesso magnete di prima per le loro produzioni. Se poi ci mettiamo l’aumento dei tassi d’interesse all’orizzonte e America che renderà i loro debiti in dollari sempre più pesanti, l’area euro non sembra più così male

Dei due grandi eventi finanziari di ieri il primo riguarda un Paese che vale lo 0,2% dell’economia globale, l’altro un secondo Paese che da solo pesa per il 15%. La Grecia ha concluso un accordo a suo modo storico per l’ennesimo pacchetto di aiuti. La Cina si è limitata a svalutare sul dollaro la propria moneta, lo yuan, dieci volte di meno quanto l’euro o lo yen giapponese abbiano già fatto nell’ultimo anno. I mercati non hanno avuto dubbi su quale sia stato il fenomeno che passerà alla storia.
Per loro oggi un gesto relativamente piccolo da parte della banca centrale di Pechino, compiuto nel giro pochi minuti, conta più del coronamento di un negoziato greco durato sette mesi. Il senso di quel gesto della Banca del Popolo è che un’economia colossale, ma in crescenti difficoltà, inizia a riprendersi dal resto del mondo parte della crescita che gli aveva prestato. Se la riprende con una svalutazione che dovrebbe ridare fiato all’export, perché la Cina non può più permettersi il ruolo che ha segnato la sua ascesa dal 2008 in poi: da allora è stata l’àncora dell’economia globale. Era stata capace di sostenere ritmi di sviluppo (quasi) a doppia cifra anche quando l’occidente era in recessione, o quando il debito estero in dollari del Brasile, della Turchia, o della Russia, rivelavano tutta a fragilità dei Paesi emergenti. Ora proprio questi ultimi, i più dinamici negli anni della grande recessione euro-americana, di colpo diventano i più esposti al cambio di clima nel più potente fra loro.
La svalutazione di ieri dello yuan sul dollaro è stata di appena l’1,9%, ma la svolta è innegabile. La Cina era sempre apparsa stabile, anche dopo che il crash di Lehman ha messo alla prova gli equilibri globali. In un sistema in cui a turno il dollaro, il rublo russo, il real brasiliano, la rupia indiana, lo yen, il won coreano, e alla fine anche l’euro si sono inseguiti nella corsa al deprezzamento, Pechino si era sempre tenuta fuori. Non ha mai preso parte alla guerra delle valute, permettendo alla sua moneta di diventare la più forte (e meno competitiva) fra le 32 principali del pianeta. La Cina aveva continuato a crescere e a sostenere l’export degli altri: un’economia da 11 mila miliardi di dollari è diventata il compratore di ultima istanza delle auto di lusso e dei beni di investimento tedeschi, dei prodotti agricoli del Brasile, dei minerali australiani.
Sotto la superficie però da tempo hanno iniziato ad accumularsi le scorie che ora minacciano di contaminare il resto del mondo emergente. Dal 2008 il debito pubblico e privato cinese è cresciuto dal 140 a oltre il 230%, senza contare quello delle banche. Un’accumulazione più veloce che in qualunque altro Paese, volta a sostenere una crescita sempre più artificiale con investimenti sempre meno produttivi: acciaierie senza mercati di sbocco, città fantasma, autostrade che nessuno percorre.
Ora la festa è finita. A luglio l’export cinese è caduto dell’8,3% e nell’ultimo trimestre gli acquisti di auto sono scesi del 22% in ritmo annuale. Gli analisti Citigroup, la banca americana, pensano che la crescita del 7% prevista per quest’anno sia in realtà da sforbiciare di almeno due punti. Molti analisti, per ora anonimi, sospettano che nei prossimi anni anche Pechino farà i conti con una vera recessione.
Del resto anche la lista dei grandi gruppi che ieri sono scivolati di più sui listini indica quali equilibri si stiano incrinando. Hanno perso terreno grandi case dell’auto come la tedesca Bmw, del lusso come la francese Lvmh, o dell’estrazione mineraria come Rio Tinto. Soprattutto, sono ancora una volta le valute dei Paesi emergenti ad aver subito un contraccolpo. Le nuove scivolate da record del real, del rublo, dei dollari di Taiwan e Singapore, del won, del ringgit malese o del baht thailandese fanno ripensare agli choc degli anni 90. Ricordano che un gorilla ferito è salito sul ring della guerra valutaria, in un gioco nel quale prima o poi qualcuno deve perdere. E fanno pensare che Paesi emergenti come la Russia, il Brasile o il Sudafrica, già esaltati per il loro dinamismo, ora sono in una morsa: la Cina non può essere più lo stesso magnete di prima per le loro produzioni. E l’aumento dei tassi d’interesse all’orizzonte America renderà i loro debiti in dollari sempre più pesanti.
Di colpo, l’area euro non sembra più così male.