la Repubblica, 11 agosto 2015
Un anno senza Giorgio Faletti. Dalla loro casa sull’Isola d’Elba la moglie Roberta Bellesini lo ricorda: «Diceva: io non sono mica Hemingway e comunque in libreria c’è posto per tutti. Lo invitavano ai festival letterari perché portava pubblico e vendeva vagonate di copie, ma poi lo ignoravano ai premi. Smise con la tv perché si sentiva svuotato. Aveva il terrore di annoiare e annoiarsi»
C’è una parola nella lingua piemontese, “galuperìa”, che si potrebbe tradurre con golosità, ma è di più. È quando un bambino vede un dolce o vuole una caramella. Di galuperìa brillano gli occhi degli uomini curiosi che sempre cercano qualcos’altro, e ne immaginano il gusto. Così era Giorgio Faletti, ed è un anno ormai che la sua golosità manca un po’ a tutti. Affamato di parole da inventare, recitare, cantare e scrivere, nelle sue molte vite Faletti aveva mantenuto il sentimento stupefatto e puro di chi sta sempre per cominciare
la prima, di vita. Ed è forse per questo che le parole non finiscono. Ci pensa e ne parla la moglie Roberta Bellesini nella loro casa sull’Isola d’Elba. È un mattino di pioggia, ma non è un mattino triste.
Roberta, lui la faceva ridere?
«Moltissimo, e fingeva di arrabbiarsi quando a me veniva una buona battuta. Com’è possibile che non ci abbia pensato io?, diceva. Giocavamo tanto».
Quindici anni insieme, e lei è stata la sua prima lettrice: come funzionava?
«Giorgio scriveva un capitolo al giorno, e la sera lo lasciava sul mio comodino. Poi si metteva a letto e fingeva di guardare la tv a volume bassissimo, ma con la coda dell’occhio guardava me che leggevo. Aspettava un segno sul mio volto, era impaziente e tenerissimo».
Dicevano che non fosse lui l’autore dei suoi libri e che come scrittore valesse poco anche se aveva venduto cinque milioni di copie. O, forse, proprio perché le aveva vendute?
«Ne soffriva tantissimo. Ripeteva: io sono un buon autore di genere noir, mica Hemingway, e comunque in libreria c’è posto per tutti. Non conosceva l’invidia, che invece con lui hanno usato in troppi».
Il mondo culturale è snob, e in Italia non ti perdonano il successo.
«Lo invitavano ai festival letterari perché portava pubblico e vendeva vagonate di copie, ma poi lo ignoravano ai premi. Certi intellettuali da salotto lo marchiarono subito, e addio. Da quando Giorgio è morto si sono fatti vivi in tanti, con affetto profondo, l’editoria manca all’appello, pazienza».
Eppure il libro postumo “La piuma” ha già venduto 250 mila copie ed è stato primo in classifica.
«Era nel cassetto, una specie di favola fatta e finita, non un giallo. I lettori mi chiedevano se ci fosse qualcosa di inedito. Con Michele Dalai di Baldini & Castoldi abbiamo deciso di lavorarci e il libro dimostra quanto Giorgio sia ancora apprezzato e amato. La considero anche una piccola rivincita e poi in quelle pagine c’è proprio tanto di lui, c’è il suo sguardo fanciullesco».
Il cassetto contiene altre primizie?
«Sì, abbiamo soggetti cinematografici e per la televisione, cose ben definite, e con La piuma potremmo farci un musical. Ma la promessa che devo a Giorgio è il film da Io uccido: De Laurentiis ha l’esclusiva dei diritti fino a dicembre, ormai è una leggenda, e se il progetto non prenderà forma cercheremo qualcun altro. Quel film lo voglio».
Come faceva Giorgio ad essere così tante cose insieme?
«Era curioso e goloso, gli piaceva esplorare ma sempre con lo spirito del debuttante. Attenzione, non del dilettante. Il debuttante ha entusiasmo, coraggio, al limite un po’ di follia. Questa energia vulcanica era il suo segreto, gli permetteva di non farsi il verso e non ripetersi. Smise con tv e cabaret perché si sentiva svuotato, pensava di avere detto tutto. Aveva il terrore di annoiare e annoiarsi».
Nel 2002 ebbe un ictus, ma lo superò: questo sentimento da superstite gli cambiò la vita?
«Più che altro lo convinse a non privarsi dei desideri. Con la musica, ad esempio, aveva chiuso, diceva di essere il peggior chitarrista del mondo. Dopo la malattia trovò la voglia e il coraggio di tornare sul palco, comunque fosse, e con Einaudi si elaborò il progetto Da quando a ora con i due cd. A sessant’anni, diceva, c’è chi si regala una Porsche, io mi regalo canzoni».
Non aveva paura di battere il naso?
«Lo metteva in conto e andava avanti. E faceva tutto con lo stesso spirito, anche in cucina era così: per noi due inventava piatti nuovi, non gli piaceva andare sul sicuro, gli pareva banale. Che ci fosse da preparare un sugo, una pagina o una canzone, Giorgio ci buttava dentro tutta la sua curiosità».
Molti lo ricordano come una persona buona. Un aggettivo strano, di questi tempi, raro e un po’ ambiguo, però bellissimo.
«Lo era. Ed era gentile e generoso. Quando qualcosa gli piaceva o lo emozionava, un film, un libro, poi cercava il numero di telefono dell’attore, del regista o dello scrittore e chiamava per complimentarsi, per ringraziare. Più o meno il contrario di quello che in tanti facevano con lui, ma non importa».
È vero che non si rendesse del tutto conto del proprio talento?
«A volte dovevo convincerlo. Gli dicevo: Giorgio, ma questa frase è così vera che si potrebbe mettere in un trattato di filosofia! Lui mi guardava un po’ storto e mi rispondeva: ma sei proprio sicura? Scrivere gli riusciva naturale, e io credo che fosse proprio la sua facilità di parola a mettergli qualche dubbio inutile».
Lei era anche una specie di editor, per Giorgio?
«Non esageriamo. Però in una cosa lo aiutavo: siccome aveva tutta la trama ben chiara in mente, anche nei dettagli, a volte dava per scontati certi passaggi che invece richiedevano maggiori spiegazioni, io glielo facevo notare e lui provvedeva».
Quando le mise sul comodino “Io uccido”, lei ebbe la sensazione che sarebbe stato un successo gigantesco?
«Nessuno poteva averla, neppure lui, neppure l’editore. A tutti noi sembrò solo un ottimo libro, un meccanismo che funzionava perfettamente, però il botto dipese anche da fattori imperscrutabili, forse il momento, la sorpresa, il fatto che in Italia non esistevano giallisti all’americana. E poi, una bella storia è una bella storia».
Da come un uomo muore, si capisce non poco di lui. È così?
«Giorgio decise di tentare l’America per le terapie. Mi disse: non siamo mai stati a Los Angeles, sarà comunque un’esperienza. Sarebbe stata più comoda l’Italia, forse troppo, così decidemmo di provare a curarci in America».
Roberta dice proprio così: curarci, non curarlo. In un verbo una storia d’amore.