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 2015  agosto 10 Lunedì calendario

Adriano Sofri sulle strade della jihad. Viaggio a Kasserine, tra Tunisia e Algeria: qui, nella culla della Primavera araba, dove una volta prosperava il turismo, passano le reclute dell’Isis dirette in Iraq e Siria. Ma, tra predicatori e contrabbandieri c’è anche chi tenta di togliere acqua all’islamismo radicale: con l’aiuto, per esempio, di volontari e medici italiani

Da lontano il nome di Kasserine, governatorato e città capitale, emoziona e intimidisce. È nella Tunisia interna, alla frontiera con l’Algeria, a ridosso della cima più alta, il monte Chaambi, 1.535 metri, prezioso per le gazzelle di montagna. Kasserine fu la culla della “Rivoluzione dei gelsomini” – 21 ragazzi ammazzati in tre giorni, nel gennaio 2012 – e però è stata poi la ridotta più accanita dei gruppi jihadisti.
Nel 1943 fu il teatro di una gran battaglia fra le forze corazzate angloamericane e tedesche di Rommel, che vi riportò l’ultima inutile vittoria. Nell’antichità aveva ospitato città insigni, e ne conserva il più ricco giacimento di templi, teatri, archi: a Sbeitla, l’antica Sufetula, a Haidra, l’Ammaedora augustea.
La (modesta) residenza del governatore è attaccata al teatro e al mausoleo della romana Cillium. Ma Kasserine è da tempo esclusa dagli itinerari turistici. Sul Chaambi si era insediata la Katibat (brigata) Okba Ibnou Nafaa, braccio armato di Ansar Charia, poi aderente al Califfato. Più volte, dal 2013, sono stati assaltati e uccisi – sgozzati e ripresi in video – uomini della polizia e delle forze speciali dell’esercito. Da qui era stato rivendicato l’attacco al Bardo, e da qui venivano due appena arrestati, sospettati di complicità con Reifeddine Rezgui, l’attentatore della spiaggia di Susa.
Sull’albergo di Sbeitla, vuoto ed enorme, la minaccia islamista ha impresso una desolazione pompeiana: c’è un’inutile acqua nella piscina, e solo una matura coppia nordeuropea, spaesata e bruciata dal sole. Verso Thala, a mezza montagna, c’è un salubre centro termale, un maneggio, un bar d’intenzione caraibica, la strada ancora da asfaltare: per fortuna ci vengono gli algerini. Il governo di Algeri ha invitato i suoi a venire in vacanza in Tunisia, e le ha prestato 100 milioni di euro a 15 anni, all’1 per cento.
La Tunisia ha con l’Algeria un confine di ben 965 chilometri, e di 459 con la Libia, dove sta costruendo un fossato e una barriera di sabbia per 168 chilometri. L’uno e l’altro confine sono il covo degli affiliati ad al Qaeda e allo Stato Islamico, e il passaggio delle reclute per Siria e Iraq. La montagna erosa e piena di grotte mi ricorda Montelepre, e aiuta a capire come un centinaio di combattenti jihadisti abbia tenuto in scacco forze armate intervenute con migliaia di uomini e con gli aerei. A Montelepre come qui, non sarebbe successo senza una complicità attiva o passiva della gente.
Le autorità locali non hanno voglia di parlarne. Si capisce che vogliano dar l’impressione di una vita normale e perfino festosa, come nella specie di carnevale in corso a Sbeitla, o nel Festival del pistacchio a Majel Bel Abbés: che il mondo venga senza paura. Dicono: «Vedete come viviamo, come tutto è normale», e però attorno è una frenesia di scorte armate. Rimuovono da se stessi l’idea che il fanatismo jihadista sia anche cosa loro, e non il frutto di un’intrusione straniera, di predicatori algerini e libici, o del Mali e del Niger, e reduci dalla Siria.
Ma c’è una strada che gli abitanti chiamano “Via della Jihad”, tanti sono i partiti e non più tornati. Ancora nell’aprile scorso sono morti qui in un’imboscata cinque soldati. Il 10 luglio è stata la volta di cinque terroristi islamici a cadere in un rastrellamento. La situazione militare è comunque migliorata.
Kasserine è una delle province più povere, e risentita contro una politica centrale che privilegia il Sahel – i 120 km di costa dorata del turismo internazionale da Hammamet a Susa a Monastir – a scapito dell’interno e del sud del paese, pur ricco, come qui, di mete preziose per un turismo colto e “verde”.
D’altra parte, in queste frontiere la penetrazione jihadista è difficilmente districabile dalla vita di contrabbando che impronta i due lati: benzina algerina, frutta tunisina, mele, pomodori, pistacchi, fichi d’India, coltivati in filari ordinati come vigne toscane, olive, olio di rosmarino... Almeno metà dell’economia del governatorato è fatta di un mercato nero di furgoni, asini, ragazzini, sul quale le autorità chiudono un occhio o due, e caso mai aprono le tasche.
Per cambiare, e togliere agli islamisti l’acqua in cui nuotano, dice il sindaco Rhida Abassi, si vuole costituire una zona franca di libero scambio tra i due paesi: buona idea, ma improbabile. Kasserine ha una trentina di piccole firme di subappalti per Benetton, la lavorazione della carta dallo sparto, cave di marmo e granito – la cui estrazione, dice il sindaco, è ancora “anarchica” – e chiede al presidente della Toscana, Enrico Rossi, una consulenza dei marmisti di Carrara, ignaro della loro gloriosa tradizione anarchica… E c’è un altro turismo, dicono, che nemmeno la guerra sul Chaambi è riuscito a spaventare: quello degli scandinavi che vengono a cacciare i cinghiali. Kasserine ne è piena. Pare che uno svedese, dissuaso dall’avventurarsi sulla montagna, abbia risposto che se invece di un cinghiale fosse sbucato fuori un adepto del Califfato… A Kasserine siamo arrivati con una scorta fornita dal governatore, Atef Boughatas, 41 anni, energico ed espansivo, che parla un suo italiano. Siamo passati da Susa e ci siamo fermati alla mirabile moschea sacra di Kairouane, con la guida di Debora Del Pistoia e Albertina Petroni, che a Kasserine curano da anni la onlus fiorentina Cospe. Pensano, con l’antropologo Alain Bertho, che il jihadismo dei giovani che fecero la rivoluzione non sia tanto una radicalizzazione dell’Islam quanto un’islamizzazione della radicalità frustrata. Le giovani donne vanno e vengono da Tunisi senza scorta, lodevole coraggio, che dovrebbe però trovare da Boughatas una più accurata protezione.
Le iniziative toscane sono numerose, la più importante riguarda l’ospedale, la sterilizzazione, e la consulenza di pediatri e infermieri del Meyer fiorentino. C’è una casa delle donne, fanno lavori artigiani di pregio e parlano delle loro cose. Non abbiamo il tempo di vederla: peccato, perché alla condizione avanzata che la Costituzione tunisina riconosce alle donne non corrisponde la situazione di fatto. Mi racconta Mounir Jeliti – «medico d’urgenza, ma da noi qualunque cosa è un pronto soccorso» – di quando gli italiani erano di casa qui. I vecchi dicono che cercavano l’uranio, e anzi lo trovarono, c’erano minerali di piombo, e lo portarono via. A Kasserine più del 40 per cento della popolazione ha meno di 15 anni. In Tunisia in nome della lotta al terrore ai giovani sotto i 35 anni è praticamente inibita l’uscita dal paese. Disoccupazione, frustrazione sessuale, destituzione sociale, delusione politica, inducono a chiedersi se i 3 mila, o secondo altre fonti più di 5 mila, espatriati alla volta dell’Is (il numero più alto in assoluto) non siano persino pochi.
Da Kasserine tradizionalmente erano in parecchi a venire in Italia, per lavorare nelle costruzioni e in campagna. «Qualcuno regolarmente, altri dall’acqua». «Il Mediterraneo ci unisce – dice il giovane Moncef, che ha un fratello in Sicilia – Mangiamo gli stessi pesci». Poi si corregge: «Ci mangiano gli stessi pesci». Non è vero. Da Roma a Tunisi si arriva in meno di un’ora, e il mare lo si vede luccicare dall’alto, come se fosse ancora quello, e non una semina d’ossa.