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 2015  agosto 10 Lunedì calendario

Silvia D’Onghia del Fatto Quotidiano si infila un niqab e passeggia per le vie del centro di Roma con un suo amico arabo. Tra gli insulti di un agente («Anvedi ’sti du’ attrezzi»), i complimenti di un arabo (rivolti all’uomo, ovviamente in arabo), la diffidenza delle italiane («Io non so come fanno... pure l’altro giorno ne è venuta un’altra con ’sta tutina») e regole non rispettate, neanche sotto Palazzo Chigi («Se io nascondessi un ordigno potrei agire indisturbata»)

Braccio semialzato e mano protesa in avanti: “Anvedi ’sti du’ attrezzi…”. “Ma chi?” “’Sta coppia, ’sti du’ cosi…Ma io non lo so, poi dicheno”. A parlare è un poliziotto in borghese, maglietta bianca e testa rasata, che si rivolge al collega (in divisa) indicando due persone che passeggiano a braccetto. Siamo noi, quelle persone, io e un mio amico. Due persone normali. Solo che lui è arabo e io indosso un niqab, il velo integrale nero delle donne arabe musulmane, che lascia scoperti solo gli occhi come il burqa delle afghane. Per capire come vivono le donne musulmane in Italia, che siano connazionali convertite – come la Maria Giulia di Brescia arruolata dall’Isis – o immigrate o seconde generazioni, abbiamo provato a fare una passeggiata nel centro storico di Roma: quello delle vetrine di lusso, dei turisti, quello dove l’apparato di sicurezza dovrebbe provare a prevenire gli attentati. A pochi metri da noi, la collega Caterina Minnucci riprende tutto con una telecamera nascosta.

La linea sottile tra sicurezza e razzismo
È un tardo pomeriggio di inizio agosto e fa molto caldo. Non c’è nulla del mio corpo visibile, ad eccezione degli occhi: l’abito arabo mi copre fino ai piedi, le mani nude sono nascoste e il niqab avvolge il mio capo dandomi la sensazione di non riuscire a respirare bene. Eppure nessuna delle numerose pattuglie (polizia, carabinieri, polizia municipale, esercito) che ci passano accanto si ferma per identificarmi. Neanche l’agente in borghese che ci insulta con la mano tesa. E dire che siamo sotto Palazzo Chigi, se io nascondessi un ordigno potrei agire indisturbata. La normativa italiana (l’articolo 5 della legge 152 del 22 maggio 1975) recita: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”. Normativa inasprita dal decreto Pisanu del 2005. Il motivo “religioso” è stato in realtà stato riconosciuto da numerose sentenze di Tribunale e, nonostante negli anni molti sindaci leghisti abbiano tentato di sostituirsi al legislatore varando ordinanze anti-velo, la giurisprudenza continua ad andare nella direzione delle donne. In ogni caso, un pubblico ufficiale ha il potere di chiedere alla signora in questione di scoprirsi il volto e di farsi identificare e la signora ha il dovere di farlo. Come sempre accade in questi casi, il confine tra esigenze legate alla sicurezza e possibili accuse di razzismo è molto sottile.
Occhi sgranati e dagli di gomito
La nostra passeggiata inizia subito prima di piazza del Popolo. La prima ad accorgersi di noi è un’anziana in un giardinetto: il suo cane non fa che abbaiare spaventato e lei decide di trascinarlo via con gli occhi sgranati nella nostra direzione. In mezzo ai turisti ci sentiamo quasi “normali”: americani e giapponesi non fanno caso al mio velo, impegnati come sono con le aste per i selfie. Sono gli italiani a non voler credere ai loro occhi. Ovunque, sono sguardi increduli, interrogativi, spaventati, persino disgustati. Il fumetto che appare intorno al capo di tre donne sulla sessantina è, inequivocabilmente, “ma questa è matta…”: quando ci incrocia, il terzetto si ferma di scatto, in silenzio, ci lascia passare e ci segue con lo sguardo. Su via del Corso veniamo superati da una prima auto dei vigili: come detto, al di là di una rapida occhiata, nulla. Un gruppo di ragazzini – 15/16 anni – chiacchiera dall’altro lato della strada. Uno di loro, cercando l’attenzione dei compagni che non ci hanno notato, allarga le braccia e poi mima con le mani la fessura che mi lascia scoperti gli occhi.
I complimenti in lingua araba
Poi veniamo fermati, ma da un uomo arabo, che si rivolge al mio amico e – in arabo – si complimenta con lui perché fa girare la moglie col velo in un paese occidentale. Intorno ci guardano tutti. Con diffidenza, soprattutto, come se quella lingua così lontana fosse presagio di sventura. Proviamo ad avvicinarci alle vetrine, mentre una coppia in bicicletta si blocca all’improvviso e devia dal percorso per allontanarsi da noi. I commessi del negozio di camicie non si scompongono, quasi fossero abituati a vedere donne vestite così. Ma sono uomini, e questo nel nostro racconto è un particolare che fa la differenza.
Perché la stessa scena, all’interno dello showroom di Max Mara su via dei Condotti, ha un esito molto diverso. Due commesse, tailleur scuro e scarpe d’ordinanza, ci seguono e, convinte di non essere comprese, commentano: “Io non so come fanno – dice una alla collega – pure l’altro giorno ne è venuta un’altra con ’sta tutina (l’abito nero e il niqab, ndr)…”. “Sì, mi ricordo – risponde la seconda – ma questa c’ha pure gli occhi chiari”. Il binomio occhi verdi-velo integrale evidentemente suona strano. Oppure fa paura. Una coppia di ragazzi – lui polo di marca, occhiali scuri e casco in mano; lei capelli lunghi, pantaloncini inguinali e Louis Vuitton d’ordinanza – passeggia con l’aria di chi il giorno dopo deve partire per le vacanze. Lui ha la testa sul display dello smartphone, lei si accorge di noi e lo strattona. Gli bisbiglia qualcosa all’orecchio. Lui, all’improvviso, solleva le braccia in direzione del volto di lei e, agitando le mani, le dice: “Pauraaaaaaa, eh?”.
Le donne anziane sono anche più intimorite, mi guardano con aria di sfida e anche un po’ di disprezzo. Mi indicano, parlano con le amiche o con i propri mariti, storcono la bocca e scuotono la testa. Non capiscono, non comprendono, per ignoranza o per paura. Non possono accettare l’idea che una donna rinunci volontariamente ad avere la visione dello spazio, ad indossare abiti o gonne, a camminare respirando a pieni polmoni. Immaginano – come la stragrande maggioranza della popolazione occidentale – che il velo integrale sia un’imposizione e non una scelta, che le donne vengano costrette a indossarlo anche nei Paesi musulmani più laici, come l’Egitto, mentre in realtà solo una minoranza di loro è obbligata. E anche qui la scelta non è facile: tra la mancanza d’aria, di libertà nei movimenti, di percezione dello spazio e gli sguardi taglienti come lame affilate, una donna islamica nel mondo occidentale non ha una vita semplice.
Difficoltà e disagio di una musulmana
Piazza di Spagna è, come al solito, gremita di turisti. Alcuni vigili urbani parlottano tra loro e, nonostante mi vedano, proseguono come se niente fosse. Probabilmente sono abituati, anche se questo è considerato “luogo sensibile” dall’anti-terrorismo. Ci fermiamo per ammirare Trinità dei Monti. Accanto a noi una comitiva spagnola, da cui rubiamo un commento: “Ha solo gli occhi scoperti, ma come fa?”. Seduta al tavolino di un bar vado incontro a un’altra difficoltà: una donna col niqab non può scoprirsi in pubblico, e quindi bere diventa un’impresa. Il bicchiere va portato sotto il velo, nella speranza – non potendo guardare – che incontri presto le labbra. Ovviamente una scena così desta curiosità. E infatti un ragazzino al tavolo affianco non fa che fissarmi. Tutti pensano che io sia straniera e che non comprenda l’italiano. Tanto che, una volta tornati su via del Corso, una donna bionda sulla cinquantina dice alle figlie adolescenti: “Guardatela, questa di sicuro viene dall’Iran, perché porta il burqa”. Paese che vai, usanze che trovi… Le due ragazze mi seguono con lo sguardo, poi una delle due sbotta: “Ma non schiatta co’ ’sto caldo?”. Poco più avanti, i miei occhi incrociano – in lontananza – quelli di un signore anziano. Appena ci vede, si blocca e ci aspetta. Immagino ci voglia dire qualcosa – il suo sguardo non è proprio amichevole – invece ci lascia passare, continua a fissarci senza muovere un dito poi, incrociando lo sguardo della mia collega, allarga le braccia e si lascia andare a un liberatorio “mahhhh…”.
In tutto il percorso, quasi tre ore, c’è un’unica persona che mi sorride, ma non capisco se per simpatia o per ironia: una guida che sta illustrando a un gruppo di turisti spagnoli il complesso del Vittoriano. Il mio passaggio crea scompiglio: le aste per i selfie si abbassano, tutto si ferma. E allora lei, una biondina molto giovane, mi guarda e mi sorride. Poi scuote la testa e prosegue la sua descrizione.
E il tassista trattiene il respiro
Ma c’è un’immagine che suggella il pomeriggio. La collega Minnucci ferma un taxi, poi ci fa cenno con la mano. Il tassista abbassa lo sguardo e le chiede se io mi devo sedere accanto a lui. Poi parte, trattenendo addirittura il respiro. Apnea, silenzio, gelo, panico. Non si sa mai che ’sti arabi abbiano scelto proprio me per farsi saltare in aria.