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 2015  agosto 10 Lunedì calendario

Sinistra, una storia di strappi e rifondazioni. Dalle lacrime di Occhetto fino alla prossima «Sinistra riformista». Perché la parola scissione all’era del marziano Renzi è tornata di moda

In principio furono le lacrime di Achille Occhetto. L’ultimo segretario del Pci non riuscì a nascondere la commozione per gli effetti di un gesto politico che stracciava le immagini dell’album di famiglia, archiviava una storia e un nome ormai ingombrante, tentava di modernizzare la sinistra italiana per trasformarla in una forza di governo ancorata alla socialdemocrazia europea.
Occhetto è stato un leader coraggioso, e la storia gli riconoscerà questo merito molto più della cronaca, che annunciò la sua scelta, fatta in grande solitudine, prima a un congresso straordinario a Bologna e poi, nel 1991, a Rimini quando si ratificò la nascita del Pds, il partito democratico della sinistra. L’incubo del segretario era Pietro Ingrao che, rientrando dalla Spagna, fu l’unico dirigente del partito ad essere avvisato di persona, in aeroporto, del cambio di nome. L’uomo più carismatico del partito la prese molto male, e non lasciò spazio ad alcuna mediazione. «Ci conteremo al congresso», disse. E con queste parole di fatto abbandonò la casa politica dove era cresciuto fin da giovane militante della lotta partigiana. Ma la vera sconfitta per Occhetto fu la scissione, maturata al congresso di Rimini, di Armando Cossutta e Sergio Garavini che battezzarono il nuovo partito di Rifondazione comunista, poi affidato a Fausto Bertinotti.

IL FATTORE MOSCA

Il fantasma della scissione ha accompagnato tutta la parabola del Pci-Pds-Ds-Pd, quasi come una legge dantesca del contrappasso, visto che i comunisti in Italia nacquero proprio con una spaccatura, al congresso di Livorno del 1921, del partito socialista. Fin quando è esistito il centralismo democratico, e lo stretto legame con Mosca, il Pci è riuscito a contenere il dissenso, quasi a dissimularlo. All’epoca contrastare la linea del segretario, considerato una sorta di divinità, era davvero molto difficile, come dimostrò l’emarginazione di Ingrao che chiedeva più democrazia interna e coltivava il diritto al dubbio.
L’unica, vera scissione fu quella del gruppo del Manifesto, al XII congresso del partito, scosso e ferito dall’ennesima invasione sovietica in Cecoslovacchia, dopo i carri armati visti a Bucarest nel 1956. Rossana Rossanda e Luigi Pintor, che fino all’ultimo avevano sperato di portare dalla loro parte anche Ingrao del quale si definivano discepoli, consideravano il Pci un partito troppo “borghese”, oggi si direbbe moderato, e andarono a intercettare alcune ondate del vento della protesta studentesca e operaia che poi arrivò fino a lambire il territorio paludoso della lotta armata. A ben guardare il Pci ha preservato la sua unità non solo in funzione di regole (il rigido centralismo democratico) e di alleanze internazionali (la subalternità al regime di Mosca), ma anche grazie a una chimica politica che affidava puntualmente la leadership del partito a un esponente di centro, frutto delle mediazioni tra la destra di Giorgio Amendola e la sinistra di Ingrao.
Cancellato il verbo della disciplina, un’arma importante in politica per depotenziare il dissenso, gli eredi del Pci si sono trasformati una comunità di «capi e capetti», secondo una celebre definizione di Alfredo Reichlin. Fino all’era del marziano Renzi, che il suo posto di dominus lo ha conquistato sul campo, contandosi attraverso la battaglia delle primarie e partendo sempre dall’opposizione. Con l’obiettivo esplicito di «rottamare», cosa che poi ha fatto, un intero gruppo dirigente. E la parola scissione con Renzi è tornata di moda, anche se da un’angolazione diversa, perché i pd oggi più che un partito governato al centro, sono diventati un partito di centro. Una questione non solo geografica, ma innanzitutto politica, visto lo spostamento dell’asse di guida ha aperto uno spazio molto ampio proprio sul versante della sinistra.
Si spiega così la rottura di Pippo Civati, che ha lasciato il Pd creando il movimento Possibile, e i continui strappi di dirigenti come Stefano Fassina, Gianni Cuperlo e Rosy Bindi, solo per fare alcuni nomi. A nessuno di loro è riuscito, però il miracolo di trovare una sponda nella sinistra sindacale della Cgil, dove Maurizio Landini sembra intenzionato a giocare una sua partita. Né può fare testo il caso di Sergio Cofferati, ex segretario nazionale della Cgil, che ha lasciato il Pd per polemiche locali, consegnando la regione dove voleva candidarsi, la Liguria, a Giovanni Toti.
Al momento, però, il fantasma di una nuova scissione nel Pd non rappresenta certo per Renzi lo stesso incubo che accompagnò la travagliata svolta di Occhetto. I dissidenti interni del partito sono molto divisi tra di loro, non hanno un’anima e un progetto comune, e l’unico fattore che li lega è l’astio nei confronti di Renzi, considerato una sorta di Berlusconi nel campo del post comunismo. Troppo poco per dare un valore e un senso a una ipotetica rottura.