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 2015  agosto 10 Lunedì calendario

James Ellroy e l’estate in cui la madre morì strangolata. I vicini parlavano di Jean come di una grande lavoratrice e di una donna perbene, che si faceva i fatti suoi e non beveva ma l’ex marito Armand diceva che era una donnaccia e un’ubriacona ed era per questo che voleva l’affidamento del figlio: «Mio padre cominciò ad avvelenarmi sistematicamente contro mia madre». Le indagini non portarono a nulla in quel giugno del 1958 ma James, molti anni dopo, con una piccola inchiesta scoprirà che non era la mamma a mentire ma il papà

Un’estate resterà per sempre nella memoria dello scrittore americano James Ellroy, quella in cui sua madre venne assassinata. «La trovarono dei ragazzini». Così comincia il suo libro autobiografico, «I miei luoghi oscuri», uscito nel 1996, dopo quattro romanzi che giravano intorno al crimine, reale o inventato, e che si possono considerare, letti a ritroso, prove generali del resoconto quasi scientifico dell’omicidio della Rossa, sua madre. Era appena cominciata l’estate, era lo «scadente sabato notte» del 21 giugno 1958. Il giorno dopo, alle 10 del mattino, arriva una telefonata nell’ufficio dello sceriffo di Temple City, una città della contea di Los Angeles: a El Monte è stato trovato il cadavere di una donna sulla strada accanto al campo da gioco di una scuola. «Donna bianca. Pelle chiarissima e capelli rossi. Età approssimativa quarant’anni. Riversa sulla schiena». Braccio destro piegato all’insù, gambe divaricate, abito scollato, blu scuro e blu chiaro, senza maniche. I particolari vengono elencati nella seconda pagina del libro: i dettagli anatomici, la pelle, gli ematomi, i lividi, le abrasioni, il soprabito, una calza legata alla caviglia, niente indumenti intimi, l’ubicazione del corpo.
Fa caldo, 32 gradi centigradi a mezzogiorno. L’identificazione della vittima, morta per asfissia da strangolamento mediante due lacci, viene fatta senza fatica: si tratta di Mrs. Jean Ellroy, Hilliker da nubile, infermiera diplomata, divorziata da qualche anno, proprietaria di una Buick bianca e rossa e residente da quattro mesi con il figlio James in un piccolo bungalow situato tra banani e palme. Il bambino ha dieci anni, si trova con il padre per il fine settimana e dovrebbe tornare nel giro di poche ore. I vicini parlano di Jean come di una grande lavoratrice e di una donna perbene, che si faceva i fatti suoi e non beveva. Viene trovata l’auto, intatta. Il bambino è alto, paffuto, informato della morte della madre, è nervoso, ma non sembra sconvolto; torna a casa in taxi da solo: «Aveva accolto la notizia con una certa tranquillità». L’ex marito, Armand, viene raggiunto al terminal di El Monte e racconta che la serata di sabato con il figlio si è svolta regolarmente: James ha sentito la madre al telefono all’uscita dal cinema, lei gli ha detto che avrebbe trovato la cena pronta al suo ritorno domenica sera. Armand rivela agli inquirenti che il divorzio è stato burrascoso visto che l’ex moglie era un’alcolizzata e che il figlio l’aveva più volte sorpresa a letto con degli sconosciuti. Per questo, lui aveva chiesto la custodia del piccolo James. Finalmente, il 22 giugno, il bambino viene affidato al padre e i due sembrano contenti di stabilirsi, insieme, in un appartamento «merdoso» di Los Angeles. Al funerale della madre, James non c’è, è rimasto a casa a guardare la tv con alcuni amici del padre. Armand si dà da fare con mezzi lavori, è contabile saltuario con orari forsennati e il bambino per lo più resta solo in casa fino a notte fonda al buio, seduto davanti al televisore o leggendo riviste per adulti, mangia hotdog alla griglia, dorme nella stessa stanza del padre con un cane puzzolente. Di giorno vagabonda per la città lasciandosi trascinare dalla bestia. Così passa luglio e agosto prima di iscriversi in sesta, la nostra prima media.
Intanto, le indagini, in quell’estate rovente e umida nel «buco del culo della contea di Los Angeles», non portano a nulla. Le settimane trascorrono tra soffiate inconsistenti, lettere anonime e piste sbagliate. È un’estate violenta di morti ammazzati che fanno scivolare in secondo piano il caso della Rossa.
La bella stagione, da queste parti, è un inferno, o meglio è il Paradiso dei Bianchi Reietti, una sfilza di paesotti per sessanta chilometri a est della metropoli, un far west selvaggio, soffocato dallo smog, in cui si può fare a cazzotti, ci si può sbronzare, gente rovinata dalla Seconda guerra mondiale e da quella di Corea, prostituzione, speculazione edilizia, locali notturni, birrerie, drive-in, la sezione omicidi del dipartimento di polizia che lavora a pieno regime.
C’è però l’inchiesta, tanti anni dopo, dello scrittore Ellroy, che esamina tutte le carte, gli interrogatori, le testimonianze, le perizie, rimugina e scopre cose importanti: non era la madre a mentire, le bugie erano del padre, che utilizzava il figlio per vendicarsi dell’ex moglie descrivendola al ragazzo come una donnaccia e un’ubriacona, gli chiedeva di spiarla per svelargli i segreti di Jean: «Mio padre cominciò ad avvelenarmi sistematicamente contro mia madre».
Il libro è dunque una sorta di crudo risarcimento a tanti anni di distanza: «Voglio trovare l’amore di cui fummo privi ed esercitarlo a tuo nome. Voglio divulgare i tuoi segreti. Voglio azzerare la distanza tra me e te. Voglio darti vita».