Corriere della Sera, 10 agosto 2015
Tutto su mio padre, un discorso mai pronunciato. La figlia racconta Junior Seau, il primo immigrato dalla Polinesia arrivato ai vertici della National football league, morto suicida nel 2012, consacrato nella Hall of Fame di Canton, in Ohio. La ragazza avrebbe dovuto leggere il suo elogio sul palco di Canton ma la Nfl non ha voluto. L’atleta soffriva di encefalopatia traumatica cronica, conseguenza della sua attività agonistica e temevano che la giovane avrebbe approfittato dell’occasione per far avanzare una battaglia legale. Peccato però non averlo letto perché di accuse non ce n’è neanche l’ombra. Per fortuna che a pubblicarlo ci ha pensato il Time
«Voi lo celebrate per le sue caratteristiche atletiche e il suo talento. Un campione leggendario che oggi riceve l’onore più grande: l’ammissione nella “Hall fo Fame” dei giganti del football americano. Ma il vostro numero 55, il vostro idolo, era anche mio padre e stasera io voglio onorare un’altra sua caratteristica leggendaria: il grande cuore. Perché due sono le parole che hanno segnato tutta la sua vita: passione e amore».
È un discorso bellissimo e commovente – il racconto di come Junior Seau, il primo immigrato dalla Polinesia arrivato ai vertici della National football league, era riuscito ad essere, insieme, grande campione e padre premuroso – quello che Sydney Seau, la sua figlia ventenne, aveva preparato per la cerimonia della sua consacrazione nella «Hall of Fame» di Canton, in Ohio. Era stato lo stesso Junior, che si era ritirato dall’attività agonistica da tempo e che nel 2012 si è suicidato, a stabilire che, se fosse stato accolto nel tempio del football dopo la sua scomparsa, avrebbe voluto che il suo discorso fosse pronunciato da Sydney.
Sabato sera la «Hall of Fame» ha accolto altri otto grandi giocatori del passato. Sydney era sul palcoscenico della cerimonia di investitura insieme agli altri sette, a rappresentare il padre scomparso. Ma non ha potuto leggere il suo discorso. «È contro i nostri regolamenti, un precedente rischioso» si sono difesi gli organizzatori, ma la loro decisione ha suscitato molte polemiche. E ha spinto il New York Times a pubblicare il testo scritto da Sydney.
Perché lo sgarbo dei leader del football? Regolamenti a parte, probabilmente la Nfl temeva che Sydney avrebbe approfittato del palcoscenico di Canton per denunciare l’inerzia dell’organizzazione sportiva davanti ai dati sui danni cerebrali di lungo termine subiti da molti giocatori per il loro impegno professionale in questo sport violento: colpi alla testa che, nonostante la protezione del casco, favoriscono l’insorgere di malattie cerebrali degenerative per le scosse violente alle quali è sottoposto il cervello.
Junior Seau, quando si è suicidato, non sapeva di essere affetto da patologie di questo tipo, anche se negli ultimi anni della sua vita, afflitto dall’insonnia, usava psicofarmaci. Dopo la morte, però, la famiglia ha donato il suo cervello al National institute of health (Nih), l’istituto federale di ricerche mediche, che ha emesso un verdetto chiaro: Seau era affetto da encefalopatia traumatica cronica, conseguenza della sua attività agonistica. Sulla base di questo referto la famiglia di Junior, come quelle di altri giocatori di football colpiti da patologie simili, ha trascinato in tribunale la National football league, accusandola di non aver avvertito gli atleti dei rischi che correvano.
La Lega e i gestori della «Hall of Fame» (una «non profit» privata) probabilmente temevano che Sydney avrebbe approfittato del palcoscenico di Canton per far avanzare la battaglia legale. Ma la figlia del grande «linebacker» che ha giocato per i Miami Dolphins, i New England Patriots e i San Diego Charger, aveva promesso esplicitamente che non avrebbe toccato l’argomento. E, in effetti, il discorso pubblicato dal Times è tutto sulle qualità umane di Junior e la sua figura di padre esemplare, oltre che di atleta che ha calcato per vent’anni i campi della Nfl.
Alla fine gli organizzatori della manifestazione, incalzati dalle critiche, hanno trovato una soluzione di compromesso: il discorso è stato sostituito con un’intervista di cinque minuti a Sydney che sul palco ha reso omaggio al padre, «un immigrato delle isole Samoa che è riuscito a imporsi e ad arrivare nella “Hall”, a dimostrazione che in America puoi realizzare il tuo sogno anche partendo da Oceanside, periferia di San Diego». Così in questa serata sospesa tra trionfalismo e ansia, nessuno ha parlato delle questioni mediche che sono diventate un incubo per tutto il mondo del «football» professionistico. Nelle stesse ore, i giornalisti andati ai raduni pre-campionato delle squadre professionistiche raccoglievano le dichiarazioni disorientate di alcuni giocatori: «Non vogliamo compromettere la nostra salute, ma ora i team, per ridurre i rischi di concussioni al minimo, ci impongono di evitare contatti violenti in allenamento. Questo però è uno sport di guerrieri. E la guerra non si può mimare».