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 2004  agosto 23 Lunedì calendario

Togliatti privato

«Birbone» si chiamava il cane di Palmiro Togliatti. Un immenso e feroce mastino napoletano che presidiava il giardino della villetta di Montesacro terrorizzando i compagni che di tanto in tanto venivano in pellegrinaggio. «Una volta mozzicò Aldo Natoli» ha raccontato Maurizio Ferrara a Giampiero Mughini (Ferrara con furore, Leonardo, 1990). Bastava che il Segretario Generale del Pci tirasse fuori di tasca un fazzoletto perché la bestia, di colpo, si mettesse a cuccia.
Nel portafoglio Togliatti conservava un santino donatogli da Giorgio La Pira (oggi in odore di santità) ai tempi della Costituente. In tasca teneva pure, come portafortuna, la pallottola sparatagli da Pallante fuori Montecitorio il 14 luglio del 1948. Il capo storico dei comunisti italiani era abbastanza superstizioso. Ha ricordato lo storico Paolo Spriano ne Le passioni di un decennio (Garzanti, 1986) che all’apice del suo potere rifiutò di farsi dedicare la scuola di formazione quadri delle Frattocchie: «Non si dà il nome di un vivo a un’organizzazione qualsiasi – spiegò seccato – se non per augurargli di morire».
Ne aveva viste tante, e delle peggiori: in Spagna e in Russia. Nella povertà agghiacciante dell’Hotel Lux, con la moglie Rita Montagnana e altri ospiti di quella precaria nomenklatura, una mattina finì per dividersi le stoviglie lasciate da una famiglia di comunisti che la notte precedente era stata prelevata e fatta sparire in qualche lager siberiano. Anche di questi episodi, dopo tutto, è fatta la storia crudele del secolo scorso, e dei suoi protagonisti.
Togliatti è l’uomo che ha assecondato e in parte incoraggiato le purghe di Stalin. «Oggettivamente corresponsabile» lo definì Occhetto, scoprendone un busto, prima che cadesse il muro. Ma è anche l’uomo che offrì agli italiani la Costituzione democratica. Il maestro di ogni tattica, ma pure il leader colto e intelligentissimo attraverso il quale i lavoratori riconobbero la propria dignità. Nemico di superbi e superbo egli stesso. «Algido, mai partecipe, sinceramente estraneo – lo descrive il suo segretario Massimo Caprara in Paesaggi con figure (Ares, 2000) – il suo saluto poteva andare bene sia per un avversario politico, sia per un sottoposto. Aveva la stessa matrice nell’imbarazzo dei rapporti formali fra gli individui». Era forse questa, o anche questa, la fonte primigenia e inconfessabile della sua celebre doppiezza?
Eppure, a 40 anni dalla morte, il Togliatti più segreto resta quello più umano, un individuo anche parecchio bizzarro. Alle Botteghe Oscure, nella sala dove si riuniva la direzione, s’era fatto costruire da un compagno falegname uno speciale banco dietro cui affrontava le noiose discussioni dedicandosi alle parole crociate senza essere visto. Era piuttosto tirchio e ci scherzava su. Aveva pochissimi amici. A cena di solito mangiava senza ordine e senza decoro. Se ne preoccupò anche Stalin, che sull’argomento fece una ramanzina a Pietro Secchia (giunto a Mosca per ritirare 600 mila dollari). Lo testimoniano i grotteschi verbali dell’incontro conservati negli archivi del Pcus: «Il compagno Stalin dice che bisogna badare a che il compagno Togliatti mangi 3-4 volte al giorno e dorma di più».
Non per nulla, nell’immediato dopoguerra, venne anche soprannominato «il Cavour delle pizzerie». In effetti nei Carissimi nemici (Bompiani, 1977), Vittorio Gorresio sostiene che Togliatti si nutriva di filetti di baccalà innaffiati con il vinaccio dei Castelli: «Quello pesante – annota con qualche riprovazione il giornalista piemontese – che sembra abbia sedimenti di gesso». In seguito la Iotti raddrizzò il tenore di vita del Migliore, che però a quel punto dovette vedersela a tavola anche con Armandino Rosati, il partigiano romano che gli faceva da guardia del corpo e che al ristorante, rivolgendosi direttamente al cameriere, pretendeva che Togliatti mangiasse ogni giorno un piatto di cervello «perché doveva pensare per tutti noi».
Non che gli mancasse materia grigia. Di nuovo Massimo Caprara: «Risolveva conflitti e rovelli accuratamente, puntigliosamente, dopo averli strategicamente affrontati e cogliendone la differenziazione e la complessità. Nessuno meglio di Togliatti valutava le proprie serrate conseguenze e ne stabiliva le priorità. Di esse fece un sapere, una scienza indispensabile alla sopravvivenza».
Anche sul piano degli affetti arrivò a crearsi un famiglia molto particolare, con una moglie che non era una moglie ufficiale e una figlia che aveva adottato e che adorava. Con la Montagnana aveva un altro figlio, Aldo, detto Aldino, la cui stabilità psico-emotiva non avevano aiutato i turbamenti dell’esilio, né quella figura paterna così ingombrante, dedita com’era al culto dell’intelligenza, a cominciare dalla propria. Il rapporto con Aldo fu ispirato da timori, dolori, sensi di colpa: «Era – secondo Caprara – una corrispondenza senza mittente e senza destinatario, fatta di reciproche attenzioni e criptiche doglianze». Forse, ancora oggi, il lato privatamente più oscuro di Togliatti.
Molto riservato, d’altra parte, molto sobrio e professorale. Molto piemontese, anche nell’accento, come risalta almeno dalle prime Tribune politiche.”La Stampa” era il quotidiano per eccellenza, quello che primo sfogliava al mattino. Per comunicare con i compagni utilizzava spesso dei bigliettini, che a volte intendevano essere ironici o spiritosi. A Maurizio Ferrara, che con la moglie Marcella, segretaria di redazione a”Rinascita”, l’aveva a lungo intervistato per il libro Conversando con Togliatti, regalò un rasoio elettrico Philips con accluso un messaggino che diceva: «Convinto che l’occuparti troppo di me ti abbia fatto venire la barba, provvedo al rimedio».
Volle il tricolore nel simbolo del Pci. Verde era l’inchiostro della stilografica e blu il doppiopetto per andare al partito o a Montecitorio. Questa specie di uniforme borghese rivelava, secondo Spriano, «il fastidio di Togliatti per la fasi tribunizie, plebee, demagogiche». Come molti capi politici con forte attitudine pedagogica (è il caso di Pannella, poi di Berlusconi), si irritava a vedere per i corridoi del Bottegone giovani funzionari e dirigenti spettinati, in disordine o scamiciati. Ma a riprova che il potere tende sempre a rassomigliare a se stesso, e tanto più nelle imposture e nelle cortigianerie, converrà qui segnalare che su”l’Unità”, su”Rinascita”, oltre che nelle pubblicazioni a cura del partito uscite nel 1953 per il sessantesimo compleanno del Segretario, ecco, dalle foto di Togliatti vennero cancellate le rughe. Così come gli vennero anneriti i capelli: «Lui lascia fare, lascia dire, lascia venerare» commenta Giorgio Bocca nel suo Togliatti (Laterza, 1973).
Scherzetti della storia. Il proto-taroccamento estetico avvicina dunque il culto della personalità del capo comunista a quello berlusconiano. Ogni tanto, a sorpresa, Togliatti spiazzava i fedeli mostrandosi moderno e tollerante. Gli piacque ad esempio Rita Pavone, esibitasi adolescente a un festival de”l’Unità”: «Quella ragazza – disse – è comunque la gioventù, il modo che hanno di divertirsi i nostri operai. Non chiudiamole la porta in faccia». È stranoto che tifava per la Juventus. Meno noto è che quando il Real Madrid venne a giocare a Torino, Togliatti in persona impedì ai compagni di distribuire fuori dallo stadio un volantino anti-franchista.
E tuttavia era già da allora una figura d’altri tempi, un leader ottocentesco, certamente erudito ma del tutto privo di cultura anglosassone. Con occhiuta e sistematica determinazione correggeva negli articoli «l’arma» con «l’arme» e «constatare» con «costatare». Con civettuola pedanteria ingaggiava pubbliche e interminabili dispute su una terzina di Cavalcanti. Non sapeva perdere, tanto meno in letteratura.
Era a disagio con la tecnologia. Detestava il telefono, non guidava l’automobile. Dopo l’attentato, il leader cecoslovacco Slanski volle regalargli una Mercedes super-corazzata, dai sedili di velluto azzurro, appartenuta a Hitler. Ma come ha scritto Maurizio Caprara in Lavoro riservato (Feltrinelli, 1997), Togliatti la trovò troppo vistosa, si sentiva ridicolo a viaggiarci, e così la berlina restò sepolta in qualche garage, luogo privilegiato per le pennichelle dei compagni garagisti.
Si poteva permettere, del resto, qualunque sì e qualunque no. I suoi funerali generarono quadri e film, né gli uni né gli altri lacrimosi. In un saggio su Togliatti nella canzone (I dischi del sole, 1969) lo storico e antropologo Cesare Bermani ha raccolto da una mondina emiliana una strofetta che fa: «L’Italia l’è malata / Togliatti l’è il dutùr / per far guarir l’Italia / tagliam la testa ai sciur!».
Ma forse, oltre alla mondina, vale qui la pena di ricordare che nei suoi Diari 1976-1979. Gli anni della solidarietà (Rizzoli, 1981) Giulio Andreotti appunta in data 6 marzo 1978: «Stanotte ho sognato Togliatti. Vestiva di grigio. Gli ho chiesto come stesse e mi ha risposto:”Lassù non mi hanno trattato male”». Chissà se c’era con lui, lassù, anche il feroce cane «Birbone».