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 2015  agosto 07 Venerdì calendario

La condanna di nascere figlio di un raìs mediorientale. Uday Hussein, Ala Mubarak, Saadi Gheddafi: sono cresciuti specchiandosi nella ferocia paterna come unico comportamento possibile. Ne sono stati l’ombra. E ora muoiono come hanno vissuto: cupamente male. Non c’è niente da perdonare, ma neppure da guardare. E un colpo secco sarebbe stata non pietà, ma giustizia

Dedicato a te, che hai guardato il video delle torture a Saadi Gheddafi, figlio di un dittatore, con un morboso misto di rivalsa e disgusto. E che stai già pensando, giustamente, che la pietà vada riservata ad altri: ai figli di chi ha ucciso, oppresso, stuprato suo padre, lui stesso, quelli come loro. Eppure, se ne resta un briciolo, bisognerebbe pure poter considerare il destino segnato di questi uomini non illustri, Uday e Qusay Hussein, Ala e Gamal Mubarak, Saif e Saadi Gheddafi, accomunati dallo stesso Dna. Infami e ridicoli, arroganti e voraci, hanno vissuto non “come non ci fosse domani”, ma come sapendo che domani sarebbe arrivato e avrebbe presentato un conto da saldare con interessi di sangue.
Esiste un fato peggiore, certo, ma anche nascere figlio di un raìs mediorientale è, a suo modo, una condanna. Tuo padre è un generale e tu sei il primo dei suoi sudditi. Tuo padre si crede una divinità e a te figlio impone il terminale sacrificio senza resurrezione. Tuo padre ti promette la successione al regno, ma non muore mai, non si dimette mai, ti espone all’odio della corte per ciò che non ti dà e quello del popolo per ciò che ti dà. Tua madre è una figura sbiadita, un capitolo di storia superato nella mitologia paterna, o una controfigura pubblica di private attrici.
In una sera lontana, durante un banchetto in onore di Lady Mubarak sull’isola dei Porci a Bagdad, Uday compare a sorpresa, reggendo in mano un oggetto che la sicurezza, inerme, gli ha lasciato portare in sala. Nonostante la circostanza diplomatica, il padre è assente, impegnato con la bionda di turno che gli è stata procurata dall’anfitrione di quella cena. L’uomo, Kamel Hana Gegeo, siede tronfio fra la moglie del presidente egiziano e quella di Saddam. Uday, riverente, le saluta entrambe, poi estrae la motosega (in altre versioni la mazza da golf) e fa a pezzi l’ospite. Non viene mandato in galera, né dallo psicologo, ma a governare qualche provincia.
Crescono, i figli di despota, specchiandosi nella crudeltà paterna come unico comportamento possibile e sicuro. Viene loro insegnato che fuori da quei confini non c’è salvezza, non c’è vita: si verrà traditi, torturati, uccisi. Quel che è drammatico è che è vero. Vogliono tutto: ogni essere umano è un bam-bolotto, ogni cosa un giocattolo. C’era una volta in Egitto un imprenditore che riuscì a farsi dare la concessione per la vendita di una marca di auto tedesca che tutti i ricchi del Paese volevano. Ala Mubarak gli propone di entrare in società, prendendosi la maggioranza. Quello, incauto, rifiuta. Pochi giorni dopo tutta Cairo guarda un video delle sue prodezze sessuali con una nota cantante, i suoi uffici vengono perquisiti, presunte irregolarità accertate, lui chiuso in una prigione in cui l’unica consolazione potrebbe essere stata veder arrivare, anni dopo, il raìs in persona, oggi sostituito da un alter ego.
C’è sempre una patetica distanza tra i sogni e le realtà di questi bulli imperiali. Saadi Gheddafi si sognò calciatore. Il padre comprò quote della Juventus, ma lui finì a non giocare nel Perugia e nell’Udinese, lasciando come più nitido ricordo i conti mai pagati in un albergo a cinque stelle e un’auto di lusso parcheggiata lì davanti, il bollo scaduto, l’assicurazione mai fatta. A casa loro possono avere qualunque donna, minacciando il padre, uccidendo il marito come un Riccardo III minore. All’estero conquistano come turisti qualsiasi. Ci sono foto più esilaranti che memorabili di Gheddafi jr nel suo giardino insieme con una tigre e una decadente soubrette italiana. Lo accarezza una brezza leggera, il vento che lo travolgerà sta soltanto prendendo la rincorsa. Chiamarsi fuori non è difficile, è impossibile. La volontà soggiace al fato. Bashar al Assad si era trasferito a Londra e studiava oftalmologia, lasciando che il padre ordisse il futuro con il fratello Basil. Quello è morto in un incidente d’auto e lo hanno richiamato perché si prendesse la Siria, con gli esiti conosciuti, per lui e per tutti. Ci hanno fatto una serie tv, Tyrant, su questa maledizione. Riflette quella epica di Michael Corleone, che voleva un’altra vita, ma quando credeva di esserne fuori veniva tirato nuovamente dentro.
Il figlio di un despota non ha futuro: non succederà al padre, ma ne seguirà la malasorte. Per questo vive una gioventù smodata e ferale, vuole un risarcimento anticipato per il danno, non riconosce la propria colpa: ha solo replicato un modello, ne è stato l’ombra, che altro poteva fare?
I finali sono spietati quanto loro. I corpi martoriati esposti al pubblico ludibrio. Le biografie concluse con un tocco comico aggiunto dallo storytelling del vincitore (le pasticche di viagra attribuite ai fratelli Hussein, ancor giovani e vigorosi, ma soprattutto senza donna alcuna nei paraggi del remoto nascondiglio). Muoiono come hanno vissuto: cupamente male. Non c’è niente da perdonare, ma neppure da guardare. E un colpo secco sarebbe stata non pietà, ma giustizia.