Corriere della Sera, 7 agosto 2015
Ecco cosa accadde a Hiroshima quel 6 agosto del 1945, quando alle 8.16 scoppiò la prima bomba nucleare. Un’esplosione che spazzò via la città: «In un miliardesimo di secondo la temperatura nel punto di esplosione raggiunse i sessanta milioni di gradi centigradi, diventando dieci volte più calda della superficie del sole». Si calcola che furono 70-80mila le vite umane spente nelle poche frazioni di secondo dopo la detonazione ma il bilancio totale arriva a 200mila morti
«Due figure, come alberi carbonizzati, fuse insieme per terra. Una appariva molto più piccola, un mucchietto informe stretto alla schiena dell’altra, come se in qualche modo la stesse abbracciando. Capì subito che erano sua moglie e la sua bambina…».
Erano passate più o meno 18 ore dallo sgancio di una bomba atomica, avvenuto alle 8,16 del 6 agosto 1945, 70 anni fa, quando il soldato Toshiaki Tanaka riuscì a ottenere dai superiori il permesso di andare a cercare la sua famiglia nel centro della città giapponese di Hiroshima.
Quello che trovò, racconta Stephen Walker nel libro Appuntamento a Hiroshima (Longanesi, 2005), furono solo cenere e pezzetti bianchi di ossa che raccolse in un fazzoletto. Non c’era altro: suo padre e sua madre, che abitavano nella stessa casetta del centro città in cui sorgeva da tre generazioni il negozio di liquori della famiglia Tanaka, erano scomparsi. Liquefatti forse dal calore oppure frantumati dall’onda d’urto, insieme a migliaia di persone che avevano subito il primo attacco atomico della storia della guerra. «In un miliardesimo di secondo – scrive Walker – la temperatura nel punto di esplosione raggiunse i sessanta milioni di gradi centigradi, diventando dieci volte più calda della superficie del sole».
Si calcola che furono 70-80mila le vite umane spente nelle poche frazioni di secondo dopo la detonazione. Ma altri sarebbero morti in seguito alle ferite e alle ustioni e altri ancora, per anni, per effetto delle radiazioni mortali, raggi gamma e neutroni, che la nuova arma era in grado di sprigionare: la stima finale delle vittime in qualche modo riconducibili alle esplosioni è arrivata a quota 200mila.
Con la bomba americana su Hiroshima e quella di tre giorni dopo su Nagasaki il mondo entrò nell’era atomica. Un ingresso traumatico, un incubo che scavò in maniera profonda nelle coscienze e non si è ancora concluso: è stimato in circa 48mila il numero di ordigni nucleari tuttora esistenti nel mondo, nonostante gli accordi di riduzione bilanciata firmati via via dalle nazioni ufficialmente in possesso di armi atomiche, soprattutto dopo la fine della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica e il collasso nell’Urss nel 1989. E non è difficile pensare che le resistenze ancora fortissime all’impiego pacifico dell’energia atomica si debbano, oltre che al rischio sempre presente di incidenti come a Chernobyl (Ucraina) nel 1986 e a Fukushima (Giappone) nel 2011, anche al ricordo dell’agonia delle due città nipponiche. È difficile spiegare oggi, quando le minacce che ci troviamo ad affrontare, come quella del terrorismo internazionale, sembrano in qualche modo più affrontabili e meno apocalittiche (fatta eccezione forse per l’emergenza ambientale), quale fu la psicosi che si diffuse nel mondo dopo il lancio delle prime atomiche.
«L’invenzione del nucleare sottolinea la possibilità che la fine della storia possa essere fatta con condizione cosciente e non più metafisica. La fobia che ne seguì era quindi non solo normale, ma anche legittima», spiega Luigi Caramiello, docente di Sociologia alla Federico II di Napoli. Il mondo usciva da sei anni terribili, tanto era durato il secondo conflitto mondiale che aveva fatto milioni di vittime. Ma esso sembrava in un certo senso una continuazione di quello che c’era sempre stato nei secoli, la guerra, anche se su scala enormemente maggiore. Le città tedesche, bombardate senza tregua, erano tuttavia almeno in parte rimaste in piedi. E molti soldati, anche dopo anni trascorsi al fronte, erano sopravvissuti per tornare a casa.
La nuova arma invece sembrava non lasciare scampo: bastavano un solo aereo per trasportarla, un pulsante per sganciarla e una frazione di secondo per annientare ogni forma di vita. Certo, ci fu chi tentò di minimizzare l’impatto del nuovo ordigno facendo rilevare che nei bombardamenti incendiari di Tokyo (soprattutto quello del 9-10 marzo 1945) c’era stato un numero paragonabile di vittime e distruzioni: più di 72 mila morti e 41 chilometri quadrati di edifici rasi al suolo. Ma quello fu il risultato di un’incursione di 334 bombardieri quadrimotori B-29. E chi arrivò a sostenere – numeri alla mano – che la prosecuzione del conflitto per altri due o tre anni avrebbe provocato altri milioni di vittime, molti di più di quelli seguiti all’esplosione. «Il racconto di Hiroshima nasconde una duplicità drammatica: tra violenza e soluzione razionale del conflitto», aggiunge Caramiello. Il mondo prese presto coscienza, conservandola a 70 anni di distanza, che la capacità di distruzione messa in mano ai governi di un pugno di Paesi membri del club nucleare rese Hiroshima e Nagasaki due episodi isolati e simboli della follia umana. Non nascondendosi però, nelle sue componenti più avvertite, «che il disarmo non avrebbe mai potuto essere totale e unilaterale, ma sempre bilanciato, controllato, reciproco per non consegnarsi al Bin Laden di turno. Conservando la deterrenza radicale per proteggere la pace insieme alla libertà, al riparo da vecchie e nuove minacce», conclude.
Se la bomba di Hiroshima fosse oggi lanciata su Milano, con «punto zero» su piazza del Duomo (il termine ground zero, usato nel 2001 per l’attacco alle Torri gemelle, fu inaugurato proprio con il bombardamento del 6 agosto), sparirebbero, oltre allo stesso Duomo, il quadrilatero della Moda, la Scala, Palazzo Marino, l’Accademia di Brera: il 70% delle persone che abitano, passeggiano, vivono all’interno di un cerchio di circa un chilometro e mezzo di diametro, equivalente più o meno alla cerchia dei Navigli, morirebbe bruciato o ucciso dall’onda d’urto. A Roma invece, se il punto scelto per lo sgancio fosse la Camera dei deputati, lo stesso tipo di effetto si avrebbe in un cerchio che passa dal Museo Borghese al Colosseo e a piazza San Pietro.
Eppure la prima bomba atomica, chiamata in codice Little Boy, ragazzino, a base di uranio, era piccola: «appena» 16 chilotoni di potenza, l’equivalente di 16 mila tonnellate di tritolo. Già l’ordigno che distrusse Nagasaki il 9 agosto, al plutonio, sprigionava l’energia di 25 chilotoni. E la potenza crebbe ancora, a dismisura, quando dalla fissione dell’atomo (i nuclei «rotti» da un bombardamento di neutroni all’interno di una reazione a catena), si passò a quella ricavata dalla fusione di atomi tra loro, la cosiddetta bomba all’idrogeno che tra l’altro, per funzionare, ha bisogno di essere innescata da un’esplosione atomica. «Se le bombe atomiche devono essere aggiunte all’arsenale bellico mondiale – disse dopo la guerra Robert Oppenheimer, il direttore scientifico del progetto Manhattan che sviluppò la bomba – allora verrà un tempo in cui il genere umano maledirà il nome di Hiroshima».