Corriere della Sera, 6 agosto 2015
Nuovo naufragio al largo della Libia, decine di morti. Alla vista dei soccorsi i migranti si sono riversati su una fiancata del barcone, che si è ribaltato: molti dispersi. Il racconto di un sopravvissuto: «Mia figlia era già sott’acqua, non riusciva più a respirare. Non so come ci siamo salvati»
Quando ieri mattina è scattato l’allarme alla centrale operativa della Guardia costiera di Roma nemmeno l’ufficiale che chiamava da Catania poteva immaginare gli sviluppi della tragedia, l’ennesima, culminata nel pomeriggio a 22 miglia dalla Libia con un pauroso naufragio e decine di morti.
Altri 25 morti, stando alle prime ricostruzioni e alla stima ufficiale dell‘Agenzia per i rifugiati dell’Onu. Forse 30. Forse molti più. Perché altre decine e decine di naufraghi sono virtualmente dispersi. Un eufemismo che spesso cela il rischio di vedere accrescere il drammatico bilancio. E questa sembra purtroppo, per dinamica ed esiti finali, una sciagura che è la fotocopia di tante altre. Perché la causa della maggior parte dei morti sta paradossalmente nell’euforia di 700 naufraghi stipati a bordo di un ferro vecchio in avaria, quando hanno visto comparire la prima nave pronta a soccorrerli, l’unità «LÉ Niamh» della Marina militare irlandese.
Già ad un miglio dal barcone in avaria dalla nave sono stati calati due «rescue boat» per soccorrere i migranti. Ma, contrariamente alle raccomandazioni sempre urlate in questo caso attraverso gli altoparlanti, quasi tutti si sono riversati di peso su una fiancata provocando il ribaltamento dell’imbarcazione, l’annegamento di chi non sapeva nuotare, la disperazione di tanti aggrappati a legni, bottiglie d’acqua, qualcuno capace di resistere in attesa di una cima, di un salvagente, tanti altri sfiniti e vinti, scomparendo fra le onde.
Un dramma vissuto in diretta dagli operatori della Guardia costiera attraverso le frenetiche comunicazioni con la «Dignity One», una nave di «Medici senza frontiere» da mesi impegnata nell’area, arrivata ancora prima della Phoenix, una nave di soccorso di 40 metri del Moas (Migrant offshore aid station). Dirottate in zona anche la nave Fiorillo della Guardia costiera e il mercantile Barnon Argos, mentre in serata partecipavano alle ricerche di vittime e superstiti due unità della Marina militare.
Una storia che potrebbe vedere moltiplicare i lutti, come temono i tigì di Malta, come rilancia in Inghilterra la Bbc, citando la Marina irlandese: «Si temono molte vittime».
Erano partiti anche loro dalla Libia dopo allucinanti traversate del deserto e fughe da città e villaggi siriani dove intere famiglie perdono la casa e tutto il resto sotto le bombe.
Il 2015 rischia di passare alla storia di questi disastri come il peggiore in assoluto perché solo nei primi sei mesi di quest’anno si sono registrati duemila morti nel Mediterraneo. Una cifra spaventosa, ampliata a dismisura il 18 aprile scorso, quando un barcone affondò fra Malta e Siracusa con circa 700 migranti rimasti intrappolati fra stiva e cabine, anche in quel caso per colpa di trafficanti e scafisti interessati solo a lucrare sulla disperazione di popoli in fuga.
Adesso accarezza felice questa briciola di un anno tenuta in braccio da un volontario di «Medici senza frontiere». Ma quando Mohamed, un agricoltore fuggito dalla Palestina, ieri mattina se l’è vista scivolare in acqua dal barcone ribaltato, «come se fosse stata lanciata da una catapulta», ha temuto di non farcela a riprendere la sua Azeel.
«Era sparita sott’acqua, vedevo solo le teste di tanti di noi caduti giù, le onde alte, tutti che cercavano di spingere gli altri per stare a galla. Un muro fra me e mia figlia, mentre mia moglie Diana boccheggiava. Dovevo scegliere. E mi sono tuffato giù pronto a morire per nostra figlia. Invece l’ho agguantata subito portandola su, facendola respirare. Attimi che non dimenticherò mai nella vita. Come non dimenticherò lo sfinimento di mia moglie che ho stretto con lo stesso braccio con cui reggevo Azeel. Non so come, ma ci sono riuscito. Resistendo fino all’arrivo di una scialuppa. Ed ora eccoci tutti qui...».
Un racconto che arriva nel quartiere generale di «Medici senza frontiere» e inorgoglisce il presidente, Loris De Filippi, fino a qualche giorno fa sulla stessa nave che ha soccorso Mohamed e la sua famigliola. Un mese a bordo. Come ricorda: «Un mese nel Mediterraneo vivendo il paradosso della sicurezza di noi medici, infermieri ed equipaggio, tutti certi che a noi non sarebbe potuto accadere nulla di grave, mentre gli uomini e le donne, gli anziani e i bimbi che attendevano di essere soccorsi da noi si giocavano tutto, la vita, la speranza, i sogni».
Dal quartier generale dell’associazione rimbalzano notizie che richiamano a De Filippi immagini già vissute durante i salvataggi delle ultime settimane: «È questa contraddizione che ci conferma la necessità di impegnarci al massimo. E lo capisci bene quando, avvistato un barcone, affiancati i naufraghi, espletate le operazioni di soccorso, finalmente li vedi arrampicarsi su una scaletta per conquistare il passamano della prua e mettere un piede sulla coperta della nave. Allora mi è capitato, ci capita di stringere una mano, dieci mani, cento mani e sentirsi appagati per questo lavoro di perlustrazione e di ausilio. Allora capisci davvero che cosa rischiano questi uomini, queste famiglie. Capisci che se noi avessimo le bombe sulle nostre case e non sapessimo come sfamare i figli ci metteremmo pure noi su una barca per cercare la salvezza. Ecco perché più sbarri la porta ai popoli in cerca di pace, più cercheranno strade insicure come le rotte del Mediterraneo fra scafisti sciagurati, carrette arrugginite e gommoni afflosciati».