la Repubblica, 4 agosto 2015
Il Giappone e i suoi fantasmi nucleari. A settant’anni dal giorno in cui la bomba atomica cancellò Hiroshima dalla faccia della Terra, il Paese vive il suo paradosso più radicale: celebra l’anniversario diviso tra voglia di riarmo e ripresa nucleare. Ma i superstiti non ci stanno: «Non vogliamo essere ridotti a testimoni di un rito ipocrita»
«Un giorno all’anno il mondo dissotterra i fantasmi di Hiroshima e di Nagasaki. Siamo alla settantesima volta. Questo rito sempre più stanco è invecchiato con me, colpevole di essere sopravvissuta e per questo senza il diritto di essere felice. Se guardo il Giappone di oggi devo ammettere che non è servito». Sueko Hada aveva otto anni quando “Little Boy” è esplosa in cielo 600 metri sopra la sua casa, uccidendo 140 mila persone. Ha perso i genitori e tre sorelle: schiacciata tra un muro e una colonna, si è salvata ed è rimasta sola. È una tra gli ultimi 60 mila hibakusha, i “colpiti”, invitati all’anniversario del 6 agosto nel Parco della Pace di Hiroshima, come statuine di un presepio vivente. «Ma io sono voluta venire prima – dice davanti allo scheletro della Cupola della vecchia camera di commercio – per non sentire i soliti discorsi sulla pace. Siamo transitati da un secolo all’altro, non riconosco nemmeno il luogo in cui ero nata. Da settant’anni tutti dicono “mai più”, ma agiscono per “un’altra volta”. Non voglio essere ridotta a testimone di una storica ipocrisia».
Il pericolo c’è e oggi nessuno, come chi è stato risparmiato dalle atomiche sganciate casualmente su Hiroshima e su Nagasaki il 6 e il 9 agosto del 1945, lo percepisce. La pace e il disarmo sono diventati temi così retorici e rituali, la finzione collettiva del dolore tanto oscena, che le vittime della guerra e dei suoi ordigni esplosivi non vogliono più sentirne parlare. Hanno la sensazione di essere feticci nelle mani dei po-litici e dei media, usati per dare una spazzolata di stagione alla coscienza, mentre l’orrore di “Enola Gay” e di “Bockscar” non spaventa più nessuno, i ricordi degli hibakusha sono ascoltati con noia e il pianeta non è mai stato così gonfio di conflitti e di armi nucleari. A settant’anni dai due bagliori dei B-29 che cancellarono due città e posero fine alla Seconda guerra mondiale, sulle commemorazioni giapponesi incombe però uno spettro ancora più sinistro. È quello del revisionismo, incoraggiato del governo nazionalista del premier Shinzo Abe. «Siamo stati distrutti – dice lo studente Tomohiko Okuda uscendo dal Museo della pace – e il mondo vorrebbe pure negarci per sempre il diritto di difenderci. Ma anche la sconfitta ha una scadenza». Tra le migliaia di “turisti della bomba” il sentimento della rivincita è prevalente. Si fotografano sorridenti davanti a monumenti e reliquie raccapriccianti, sfilano in battello tra i memoriali dell’A-Bomb e l’urna che conserva le ceneri di una popolazione, acquistano portachiavi “Fat Man”, timbri e finti pezzi di macerie, terminando il tour rafforzati nell’ossessione dell’ingiustizia patita. Tutto, a parte i sopravvissuti esasperati dal ruolo che li si costringe a replicare fino alla morte, è pensato del resto per imprimere nel visitatore il convincimento che le due bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti siano state atrocità piovute dal nulla, estranee alla guerra che le ha precedute, alle invasioni, alle stragi e ai crimini commessi in Asia dal Giappone imperiale alleato della Germania nazista.
Dopo settant’anni a Hiroshima e a Nagasaki, città-reliquia ricostruite per cancellare la responsabilità nazionale esibendo le colpe internazionali, non una foto, un documento, chiariscono il contesto dell’orrore di cui i giapponesi rimasero infine vittime. «Non è compito nostro – dice il sindaco di Hiroshima Kazumi Matsui – ricostruire la storia del Novecento e stabilire le percentuali della follia. Qui dobbiamo spiegare ciò che realmente accadde a partire dalle 8.15 del 6 agosto 1945, il “dopo” non ancora concluso. Il problema non è chi debba chiedere scusa a chi: è che i leader di oggi devono astenersi da azioni che suscitano diffidenza reciproca e fare qualcosa di concreto per rendere impossibile il lancio di terza bomba al plutonio».
È il punto che toglie a questo settantesimo il velo irritante del finto pietismo sull’”inverno atomico”, rendendo decisivo l’anniversario. Non si può dire che vigilia e prospettiva siano incoraggianti. Shinzo Abe sta per far approvare l’abrogazione della Costituzione pacifista del 1946, investendo quanto mai prima nelle nuove «forze di autodifesa». Il Giappone subisce quella che il premier chiama «normalizzazione delle condizione militare nazionale», vissuta con un misto tra timore e vergogna. Il 10 agosto, a celebrazioni anti-atomiche concluse, il governo riaccenderà a Sendai il primo reattore nucleare, sui 53 chiusi nel 2011 dopo la fuga radioattiva a Fukushima.
La corsa al riarmo e la ripresa atomica di Tokyo soffocano il ricordo pacifista e anti-atomico di Hiroshima e Nagasaki, spaccano in due il Paese, ma legittimano anche la domanda che agita il resto del mondo: quale Giappone prevarrà? «Il 15 agosto – dice Kazushi Kaneko, rappresentante dei sopravvissuti al colonnello Tibbets – ricorre l’anniversario della resa. Abe ha anticipato una dichiarazione storica: se avrà il coraggio di farla può essere il segnale destinato a cambiare le relazioni tra super-potenze, il congedo dall’era delle armi nucleari».
Cina e Corea del Sud aspettano le scuse per massacri e invasioni, i nostalgici della destra di governo le scoraggiano, gli Stati Uniti preferiscono che la storia non venga chiarita troppo e che Tokyo sia piuttosto nelle condizioni di frenare da sola l’ascesa di Pechino. Commuoversi nei cimiteri- icona delle guerre è la prova di un residuo di umanità, ma il caso-Giappone dopo settant’anni conferma che la questione-Hiroshima è tutt’altro che risolta. L’imperatore Hirohito, grazie agli interessi Usa, non è stato mai processato, suo figlio Akihito continua a rappresentare l’unità nazionale e il leader nipponici onorano annualmente anche i 2,5 milioni di caduti dell’era Showa, sepolti nel tempio di Yasukuni assieme a 1068 criminali di guerra. La Cina, sfruttando amnesie e mancate assunzioni di responsabilità, il 3 settembre per la prima volta risponderà così celebrando non la fine della Seconda guerra mondiale, ma la «vittoria sull’invasore giapponese». Xi Jinping ha proclamato la data «festa nazionale», ha organizzato la sua prima parata militare in piazza Tiananmen e ha invitato tutti gli imbarazzati leader mondiali, compreso Shinzo Abe. «È la provocazione di un arrogante – dice Sathosi Yahagi, curatore del libro- appello No nukes Hiroshima- Nagasaki-Fukushima, firmato con 50 personalità giapponesi – non si può umiliare un popolo costringendolo dopo decenni a festeggiare la propria distruzione. Nemmeno Angela Merkel ha potuto partecipare alle celebrazioni di Putin a Mosca. Ma la realtà è che l’onestà storica di Tokyo non corrisponde a quella di Berlino e che un premier come Abe, finora estraneo ad azioni di riconciliazione, non potrebbe comunque presentarsi alla Cina».
Mostre d’arte e concerti dirottano sui «luoghi dell’orrore» oltre due milioni di turisti, sedotti più dall’adrenalina delle polemiche che dal sedativo della memoria. A Hiroshima si attendono anche i ministri degli Esteri del G7 nipponico, il prossimo aprile, e molti sperano in una visita a sorpresa del presidente americano Barack Obama, prima della fine del mandato. L’agenzia della casa imperiale del Crisantemo ha diffuso per la prima volta la versione originale della controversa e incomprensibile resa radiofonica di Hirohito, definita «trasmissione della voce gioiello».
Mezzo Giappone la interpreta come un tacito invito a guardare all’agosto 1945 con «spirito di verità». L’altra metà sottolinea come il Tenno «la parola resa non l’ha mai pronunciata». «In fondo al cuore – dice l’ hibakusha Suzuko Numata sotto l’albero di ginkgo cresciuto sul luogo su cui sorgeva la sua casa, dietro l’ex ospedale Shima – il Giappone non ha mai smesso di combattere e non si è mai arreso alle condizioni di Potsdam. È a questa voglia di rivincita che il bellicoso neo-nazionalismo filo-atomico deve il suo successo: il nostro ultimo oltraggio, la nostra vera sconfitta». Hiroshima e Nagasaki dopo 70 anni restano condannate all’immagine di città della pace: mai come oggi però le loro vittime tradite sono costrette a respirare quel tanfo ustionante e offensivo di altre, interminabili guerre.