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 2015  agosto 04 Martedì calendario

Ma la minoranza del Pd può considerarsi all’altezza del ruolo che rivendica in questi giorni a proposito di quattro o cinque leggi (Senato, Rai, Pubblica amministrazione, stabilità economica) di importanza capitale? Magari è imminente lo sconquasso definitivo, la fine del renzismo, ma un anno almeno di vano e prolungatissimo tricche-tracche autorizza a nutrire più di un dubbio sulla tenuta, anche psicologica, dei guerriglieri del penultimo giorno

È vero: la politica si fa con quello che c’è a disposizione. Ma la minoranza del Pd – e già questa denominazione dice abbastanza sugli orizzonti che persegue – può considerarsi all’altezza del ruolo che rivendica in questi giorni a proposito di quattro o cinque leggi (Senato, Rai, Pubblica amministrazione, stabilità economica) di importanza capitale?
Ecco, magari è imminente lo sconquasso definitivo, la fine del renzismo, ma un anno almeno di vano e prolungatissimo tricche-tracche autorizza a nutrire più di un dubbio sulla tenuta, anche psicologica, dei guerriglieri del penultimo giorno.
Questa storia, per esempio, del Vietnam. Sospetta e anche un po’ buffa, non solo perché più la politica s’immiserisce e più il suo linguaggio si fa magniloquente e immaginifico, per non dire trombonesco. Così sarà un caso, ma da una piccola indagine risulta che lo spauracchio stagionale dei vietcong è entrato negli annali delle cronache i primi di agosto del 1998 allorché, nel lanciare l’imminente e oggi scomparsa festa politico termale di Telese, due preclari esponenti dell’Udeur, Diego Masi e Angelino Sanza, a nome di Mastella promisero solennemente “un Vietnam d’autunno”.
Ora, discutibile appare il programma istituzionale di Renzi; e controverso, come minimo, l’obiettivo del partito verdiniano della nazione, così come non lascia scampo la sommatoria d’improvvisazione e di enfasi, tutta berluscoide, che promana dall’uomo solo al comando. Abbastanza antipatica, seppure per certi versi spassosa allo stato nascente, risuona nel complesso la retorica renziana, del tutto estranea all’utilità del dissenso.
Ciò detto, è pur vero che questa benedetta minoranza, sin qui organizzatasi in misteriosi aggregati dalle improbabili denominazioni e comunque riconoscibile all’ombra di un nomignolo dal retrogusto irrimediabilmente commerciale, “la Ditta”, ha trascorso la sua breve esistenza a stuzzicare più che a minacciare il governo, su qualsiasi provvedimento, anche sbagliatissimo, salvo poi tirarsi indietro, e dividersi, e perdersi, non senza aver esperito la più ampia gamma di “vorrei-ma-non-posso”: autolimitazione di firme, ritiro in extremis di emendamenti, pensose astensioni, dimissioni retrattili, inutili uscite dall’aula, spudorati non-voti. Nulla, insomma, che abbia seriamente impensierito il segretario-presidentissimo sul Nazareno, la riforma bicamerale, l’Italicum, la Buona scuola, il Jobs act, senza contare le scadenze, le nomine, le battutine, le rispostacce e via dicendo.
Per cui quasi con rassegnazione prima delle vacanze si è portati ad accogliere questa specie di teatrino seriale del finto pathos. E allora: aiuto! aiuto! stavolta i rivoltosi fanno sul serio, al Senato i numeri ballano, ma Renzi, eroico, confida ai suoi: «Io vado avanti», e via alla prossima.
In pochissimi se ne sono andati via dal Pd. Cofferati, Civati, Fassina, e il vederli alle prese con quelli di Sel non incoraggia l’esito. Quelli che restano, astuti e prudenti strateghi, lasciano piuttosto intravedere la turbo-super-mega scissione. Intanto i giovani turchi hanno battuto tutti nel mettersi al servizio del Principe; e un altro gruppetto di “pontieri”, che fin dai tempi di Paolo Emilio Taviani non mancano mai, si sono tolti qualsiasi residuo di post-comunismo battezzandosi giustamente con la stessa fresca denominazione della corrente andreottiana anni 50: “Primavera”.
D’accordo, non deve essere facile fare opposizione. Né si può puntare sullo scatafascio. Ma la dinamica è ormai e talmente troppo uguale a se stessa per non evocare una sorta di inconfessabile, forse perfino inconsapevole gioco delle parti. Così la minaccia è sempre lì, ma a parte un paio di imboscatelle parlamentari di trascurabile impatto, uno o due giorni sul giornale, tutto procede secondo il solito protocollo e l’apocalisse è rinviata.
Ciò nonostante, essendo la politica fatta anche di queste cose, l’esperienza induce a pensare che i pretesi vietcong del Pd resistono per motivi tanto difficili da spiegare quanto personalmente decisivi in un tempo in cui i destini collettivi assomigliano a un optional. Una faccenda di auto, stanze, telefoni, segretarie, possibilità di concordare un avanzamento o di piazzare un amico, qualche fondata speranziella di essere riconfermati in lista alle prossime elezioni, magari in nome della “ragionevolezza” dimostrata – senza contare che il governo può andare a sbattere da solo.
Impacchettati in confezione post-ideologica, dietro ai nomi della Rai e i destini di Palazzo Madama, tornano utili gli eterni proverbi. Uno notissimo dice, con tutto il rispetto, che i cani “abbaioni” non mordono. Altre bestiacce, semmai, possono fare male al premier: la prepotente indipendenza di cacicchi alla Emiliano e alla De Luca; l’imprevedibile resistenza di Marino, i colpi di testa di Crocetta, i conflitti latenti tra il Giglio magico e il resto dei renzisti; l’inesorabile e inesauribile desiderio di Enrico Letta, che fa pure rima con vendetta. Il vero Vietnam d’altra parte non si proclama.