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 2015  agosto 03 Lunedì calendario

Il Messico degli orrori. Decine di fosse comuni piene di desaparecidos nella discarica di Iguala. Così la criminalità ha fatto sparire migliaia di corpi scomodi. E ora ai parenti non resta che scavare. I dati ufficiali confermano la scomparsa di 30mila persone dal 2006 al 2014, ma le Ong e associazioni umanitarie sostengono che la cifra reale sia ben diversa: 200mila cittadini finiti nel nulla in meno di dieci anni

Appena scendo dal pullman sotto un sole già spietato alle 10 di mattina, vedo il viso rabbuiato di Alejandro. Un giornalista trentenne che lavora per un giornale locale. Il motivo della sua preoccupazione e tristezza giace a 300 metri da noi. Il cadavere di un suo collega è ancora steso a terra, sotto il lenzuolo della scientifica. “L’hanno ammazzato con quattro pallottole in faccia mentre scendeva dalla macchina. Era un cronista coraggioso”. Anche Alejandro lo è, come la maggior parte dei cronisti del Guerrero, uno degli Stati più violenti del Messico. Ero partita tre ore prima da Città del Messico e ora che sono arrivata a Iguala in questo frangente, mi salgono a galla tutte le raccomandazioni degli scrittori, esperti e attivisti che avevo incontrato nella capitale per cercare di capire come mai il Messico sia diventato un collage di Stati mafia. Un inferno di violenza e soprusi ai danni dei più deboli. È proprio sul Periferico Norte, la superstrada di Iguala che nel settembre dello scorso anno furono sequestrati dalla polizia municipale i 43 studenti della scuola Ayotzinapa annidata nella campagna di Tixtla, un pueblo distante un’ottantina di chilometri. Ayotzinapa fa parte delle cosiddette scuole normali. Termine con cui si definiscono le scuole statali di stampo marxista create nel secolo scorso per i figli dei contadini più poveri.
Dopo la dichiarazione del procuratore federale Murillo Karam in cui è stata rivelato, nonostante l’indagine non fosse stata chiusa, che gli studenti erano stati sequestrati dalla polizia municipale di Iguala su ordine del sindaco Luis Abarca – colluso con un cartello di narcotrafficanti – e quindi consegnati ai narcos che li avrebbero bruciati in una discarica vicino a Iguala, i loro familiari hanno iniziato a cercarne i resti. Perlustrando la discarica di Cocula e i boschi attorno a Iguala, i genitori e parenti dei 43 anziché trovare ciò che ne era rimasto, hanno scoperto decine di fosse comuni affollate di corpi di altri desaparecidos. I dati ufficiali pubblicati dalla federazione confermano la scomparsa di 30mila persone dal 2006 al 2014, ma le Ong e associazioni umanitarie messicane sostengono che la cifra reale sia ben diversa: 200mila cittadini finiti nel nulla in meno di dieci anni. Numeri agghiaccianti che non possono non mettere sotto accusa le istituzioni, infiltrate a tutti i livelli dalla criminalità. “Quando abbiamo saputo che erano state scoperte delle fosse comuni, abbiamo deciso di fare come i genitori degli studenti. Da ottobre a oggi abbiamo trovato 60 fosse solo nei dintorni di Iguala”. Mario Vergara mi accoglie nella cucina della Chiesa di San Francesco, dove è stata istituita la sede del comitato los otros desaparecidos (gli altri scomparsi). “Mio fratello è scomparso due anni fa senza lasciare un biglietto, un segnale, nulla. Era un taxista. La sua macchina è stata ritrovata intatta. Sono certo non avesse legami con il narcotraffico. Forse si è rifiutato di fare qualcosa per degli affiliati che volevano trasportasse droga. Ma sono tutte congetture”, mi spiega con le lacrime. Mentre una anziana signora mi offre una limonata per smorzare l’afa insopportabile, entra Carmela Abarca annunciando che la gendarmeria è in ritardo e bisogna aspettare ancora prima di andare a buscar las fossas. Come ogni domenica, dopo la messa delle 9, i familiari, confortati dalla benedizione del parroco, si incamminano alla ricerca delle spoglie dei loro cari. “Mio marito era un ex poliziotto, quando è scomparso lavorava part time perché aveva deciso di studiare legge”. Carmela ha 43 anni, come il padre dei suoi tre figli, che ora non sa come sfamare perché ha dovuto lasciare il lavoro. “Sono troppo piccoli per stare a casa da soli. I nonni abitano lontano e qui non abbiamo parenti. Quando c’era mio marito ci davamo il cambio. Faccio le pulizie due volte la settimana e per fortuna ci sono queste amiche che se ne prendono cura”, dice indicando tre signore di mezza età dallo sguardo pietrificato sedute attorno al grande tavolo. Sono le mamme di altri fantasmi di questa guerra silenziosa. “Dopo la sua scomparsa, ho ricevuto una sua chiamata di pochi secondi in cui mi diceva che stava bene e sarebbe tornato presto. Ora non ci spero più, vorrei solo dargli una degna sepoltura”. Carmela, come altre, aveva ricevuto la chiamata di un anonimo che chiedeva un riscatto impossibile.
“Gli investigatori dicono che gli autori dei sequestri sanno benissimo che non possiamo pagare migliaia di pesos. Chi sequestra chiederebbe il riscatto solo per farci credere che i nostri cari sono ancora vivi e indurci a non denunciare, altrimenti, dicono sempre, li ammazzeremo”, piange la signora De la Cruz, sessantenne ex impiegata municipale che da tre anni cerca la figlia ventenne. Sua nipote è stata freddata la settimana scorsa davanti ai sui bambini nella piazza centrale di Iguala. Si tratterebbe di una vendetta contro il marito che aveva denunciato alcuni poliziotti coinvolti nel sequestro dei 43. La sensazione è di essere finiti in un film horror. Sensazione che diventa tangibile quando ci incamminiamo per andare a cercare le fosse. Solo la forza della disperazione può spingere questa processione di esseri umani dolenti a sfidare il caldo, i narcos e i poliziotti municipali, molti dei quali la notte si trasformano in sicari e per ritrovare i congiunti. Mentre avanziamo tra gli sterpi e i rovi, circondati da cactus giganteschi, improvvisamente l’uomo vestito di bianco, che ci guida, si ferma. In una mano tiene un lungo bastone e nell’altra un foglio di quaderno con una mappa. “Un anonimo ci ha fatto recapitare questo foglio che indica le coordinate per trovare le fosse. Non è la prima volta. Ma non posso spiegarvi nei dettagli come veniamo in possesso di queste mappe perché chi ce le dà rischia grosso”, dice Daniel, il campesino esperto di ritrovamenti. Grazie a quarant’anni di lavoro nei campi questo minuscolo cinquantenne è in grado di capire quando il terreno è stato smosso e ricoperto artificialmente.
Nonostante non abbia familiari scomparsi, dall’ottobre scorso ha dedicato tutte le sue domeniche a buscar las fossas. Mario, il coordinatore dell’associazione lo guarda con gratitudine mentre lui alza gli occhi verso le cime della Sierra. Lassù, nascoste dalla fitta vegetazione tropicale, ci sono le piantagioni di marijuana, di papavero da oppio, coltivate da una schiera di schiavi guardati a vista dai narcos. Nessuno può avvicinarsi, neanche l’esercito. Talvolta i signori dei cartelli ordinano ai loro cecchini di scendere per impedire ai buscatores di continuare le ricerche. Dopo aver constatato che non c’è nessuno in vista, Daniel inizia la sua macabra operazione. Alza il bastone fin sopra la testa, poi, con una mossa rapida e precisa lo ficca in profondità nella terra. Con una manovra altrettanto rapida lo riporta in superficie e lo annusa. L’odore della decomposizione è inconfondibile. Intanto i familiari attorno a lui pregano, mentre piantato una bandierina sul punto in cui è stato estratto il bastone. Servirà a medici e antropologi forensi per dare il via alla riesumazione.