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 2014  agosto 13 Mercoledì calendario

Le due vite di Togliatti

A mezzo secolo dalla sua morte, la storia può tentare di comporre un’immagine finalmente più vera di Palmiro Togliatti, collocandolo nel suo tempo che fu quello ormai lontanissimo dell’Europa della prima metà del Novecento: un tempo di ferro e di fuoco, dominato da scontri ideologici senza quartiere, dalle guerre mondiali, da crisi economiche e conflitti sociali acutissimi. Che Togliatti, come si sa, visse per intero e con convinzione nell’orbita del comunismo leninista, cioè di stretta obbedienza sovietica. Avendo però modo di ottenere dalla sorte la straordinaria possibilità di vivere due vite, di esprimersi in due esistenze affatto diverse.
Nella prima – dalla metà degli anni Venti al 1944 – il giovane studente universitario torinese di buoni studi, compagno di Gramsci, si trasformò in breve in un disciplinato funzionario della Terza Internazionale, l’organizzazione che, fondata a suo tempo dai bolscevichi per diffondere la rivoluzione mondiale, era destinata però a divenire rapidamente lo strumento dell’Unione Sovietica, desiderosa di controllare i vari partiti comunisti e usarli per i suoi interessi. Ormai costretto all’esilio dall’Italia fascista, Togliatti lo capì presto, più presto di tutti gli altri suoi compagni; così come più presto di loro capì che l’ascesa al potere di Stalin era inevitabile. E si adeguò. Divenne dunque un fedele funzionario dello stalinismo, caricandosi volenterosamente, per anni e anni, di tutti i misfatti che un tale ufficio comportava: «bolscevizzazione» d’imperio del Partito comunista d’Italia con relative espulsioni; rappresentanza del Comintern in Spagna, durante la guerra civile, come uomo di fiducia dell’Urss e dei suoi disegni, e dunque anche come orchestratore dell’azione criminale contro anarchici e trotzkisti da parte della polizia politica sovietica installatasi in terra iberica; piena condiscendenza nello sterminio del gruppo dirigente del Partito comunista polacco e in tutte le altre cruente eliminazioni (compresa quella di un paio di centinaia di militanti italiani) ordinate da Stalin. D’altra parte non c’era scelta: nel comunismo internazionale si faceva carriera – soprattutto ci si manteneva in vita – solo in questa maniera, solo a questo prezzo.
In cambio Togliatti divenne il capo indiscusso del Pcd’I, nonché uno dei massimi dirigenti del Comintern. L’ultimo suo atto di obbedienza a Stalin fu, al momento del ritorno in Italia, la «svolta di Salerno»: cioè la decisione dei comunisti – ispirata da Mosca, come oggi sappiamo dagli archivi – di rompere con gli altri partiti di sinistra del Cln, anteponendo la necessità della guerra antifascista alla questione della collaborazione con la monarchia, il cui governo era stato appena riconosciuto dall’Urss per cercare di contrastare l’influenza anglo-americana nella penisola. Ma il ritorno in Italia valse a liberare Togliatti di tutto il suo passato «russo». Fu finalmente l’inizio della sua seconda vita: quella in cui egli avrebbe potuto dare fondo a tutte le sue capacità politiche, questa volta in modo autonomamente creativo.
Il suo primo e maggiore capolavoro fu la trasformazione in tempi rapidi di un partito-setta di poche decine di migliaia di quadri in un grande partito di massa: non più «d’Italia» bensì «italiano», a significarne la scelta a favore di un deciso radicamento nazionale. Per costruire il «partito nuovo» Togliatti si rivolse con grande spregiudicatezza e intelligenza ai due unici serbatoi di organizzazione e mobilitazione politico-ideologica che la storia italiana gli aveva, per così dire, approntato: da un lato l’eredità di istituzioni di base messe in piedi, prima del fascismo, dal socialismo riformista (cooperative, municipi, case del popolo, camere del lavoro), e dall’altro la massa, specie di giovani, che si era riconosciuta nel regime mussoliniano, nel suo confuso rivoluzionarismo antiborghese e antiplutocratico, e che ora poteva facilmente considerare il comunismo una prospettiva nuova, in cui però far vivere quei medesimi aneliti. Due mosse riuscitissime, grazie alla prima delle quali, tra l’altro, egli privò per sempre il Partito socialista di una qualunque possibile base di massa, condannandolo per sempre a un ruolo numericamente secondario rispetto ai comunisti. Ma Togliatti si prefisse un ulteriore traguardo: ottenere il consenso anche dei cattolici, o perlomeno una loro benevola neutralità, con il mettere decisamente da parte l’anticlericalismo, spesso retorico e di maniera, tradizionale della sinistra e della democrazia italiana.
Naturalmente al capo del Pci riuscì di fare tutto ciò grazie ad alcuni assi che aveva nella manica. Il primo, di enorme portata emotiva e simbolica, era il prestigio e la potenza dell’Unione Sovietica e dell’Armata rossa, era il mito della «Grande rivoluzione d’Ottobre», dei cui esiti trionfali il Pci si presentava in Italia come il rappresentante autorizzato. Il secondo asso era il fiume di denaro (senza il quale sarebbe stato impossibile alimentare una rete imponente di sedi, funzionari, giornali, iniziative le più varie), del quale il Partito comunista poteva disporre perché destinatogli direttamente da Mosca.
La «doppiezza» del Pci consistette l’appunto in ciò: mantenere un fortissimo legame pratico e simbolico (e dunque necessariamente anche ideologico) con l’Unione Sovietica, ma associarlo a una pratica quotidiana sapientemente riformista, ostile nel modo più fermo a ogni estremismo «infantile». Un’acrobazia politica di altissima qualità, come si capisce, tutta sorretta dall’ipotesi di una sedicente «via italiana al socialismo». Via che sarebbe stata aperta dalla «rivoluzione democratica antifascista» e che si sarebbe potuto percorrere fino alla meta indicata grazie all’«attuazione della Costituzione»: altre due formule di sapore mitologico della propaganda del partito togliattiano, le quali però servivano ottimamente a mantenere vivo il suo mito di fondazione, il socialismo. A farlo ritenere credibile, credibilissimo (in fondo per «attuare» la Costituzione bastava solo convincere con le buone o con le cattive la riottosa Democrazia cristiana), ma insieme, anche, a rinviarne sine die la realizzazione.
Ora, se di fronte a ciò è giusto essere critici come si è stati nelle righe appena lette, è giusto però anche ricordare che fu proprio in forza di queste varie formule – ognuna capace di stabilire rapporti di alleanza tra il Pci e settori non comunisti del Paese – che il partito togliattiano riuscì non solo a sopravvivere, ma a mettere sempre più forti e vaste radici nell’Italia lacerata della guerra fredda. Fu una geniale strategia della resistenza contro il tempo, in attesa che i tempi in qualche modo imprevedibile cambiassero direzione. E fu anche il modo in cui vaste masse di italiani si familiarizzarono con una dimensione moderna di educazione politica, si educarono ad una sia pur approssimativa e contraddittoria idea di democrazia.
Una strategia, quella fatta propria dal «partito nuovo», che ebbe al suo centro l’ultimo capolavoro politico di Togliatti: la costruzione di un saldissimo rapporto con il ceto intellettuale. Che fu dovuto in buona misura all’uso magistrale – dettatogli dalla sua stessa cultura, dalla sua stessa conoscenza della vicenda del Paese – che egli seppe fare del lascito intellettuale di Antonio Gramsci: pur non potendo egli certo ignorare – ancora di più c’è motivo di crederlo in seguito ad alcuni studi recenti – fino a che punto, una volta in carcere, il padre del Pci avesse preso le distanze da molte cose e persone della sua creatura, quasi sicuramente perfino dalla personalità politica di Togliatti medesimo. Sta di fatto che fu soprattutto così che questi, presentando il Pci come il continuatore dell’opera di Gramsci, come il fautore di un comunismo molto italiano, colto e liberaleggiante, costruì intorno al partito una cintura di consenso tra artisti, registi, letterati, professori universitari, scienziati, la quale contribuì non poco a renderne attraente l’ immagine e inespugnabile la posizione.
Ma alla fine l’ironia della storia – o meglio la sua segreta, ma inappellabile coerenza – volle che tutto ciò, che tutto questo grande dispiegamento d’intelligenza, di tenacia, di energia, anche di durezza, si dissolvesse come un castello di sabbia. Perché a un certo punto accadde quello che di sicuro mai e poi mai Palmiro Togliatti o qualcuno dei suoi compagni pensò, tra mille pensabili cose, che sarebbe potuto accadere. Cioè che dal cuore dell’Impero rosso, dal Gran Quartier Generale del Socialismo, comunicassero che la guerra era finita, e che il loro esercito l’aveva perduta quasi senza neppure combattere. E che dunque la lunga, faticosa strategia elaborata da Togliatti, le trincee e le casematte da lui così abilmente apprestate, non servivano più a nulla. Che di esse sarebbe rimasto solo un sempre più sbiadito ricordo.