Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2015
Ma la Turchia di Erdogan è la soluzione o il problema nella guerra all’Isis? Per gli Stati Uniti, la Nato e gli europei in questo momento appare la soluzione ma presto potrebbe rivelarsi il problema perché la battaglia contro il Califfato per Ankara è soltanto un’opportunità per sbarazzarsi dei curdi, occupare una parte del territorio siriano e tenere a bada il Kurdistan iracheno
La Turchia è la soluzione o il problema nella lotta al Califfato? Per gli Stati Uniti, la Nato e gli europei in questo momento appare la soluzione ma presto potrebbe rivelarsi il problema perché la battaglia contro l’Isis per Ankara è soltanto un’opportunità per sbarazzarsi dei curdi, occupare una parte del territorio siriano e tenere a bada il Kurdistan iracheno.
Obiettivi legittimi dal punto di vista di Ankara, ossessionata dall’idea che possa nascere uno stato curdo ai suoi confini, ma che non coincidono con lo scopo principale dichiarato dalla coalizione internazionale, cioè la lotta allo Stato Islamico. Se questo davvero è ancora l’obiettivo della coalizione, oppure, al contrario, si cerca di abbattere il regime di Bashar Assd e regalare un’affermazione agli Stati sunniti come una sorta risarcimento per l’accordo con Teheran sul nucleare.
Il presidente Tayyip Erdogan, dopo avere affondato il processo di pace con i militanti del Pkk di Abdullah Ocalan, propone adesso che i politici del partito filo-curdo Hdp collegati a “gruppi terroristici” siano spogliati della loro immunità parlamentare e bombarda a tutto spiano le postazioni del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) nel sud est della Turchia. La guerra per Erdogan rappresenta anche un’opportunità per regolare i conti interni dopo le elezioni del 7 giugno in cui l’Akp ha perso la maggioranza assoluta dopo 13 anni di incontrastato dominio, proprio a causa dell’ingresso in Parlamento del partito filo-curdo Hdp.
Non solo. L’accordo con gli Stati Uniti in base al quale la Turchia ha concesso la base aerea di Incirlik in cambio dell’insediamento di una fascia di sicurezza in territorio siriano appare una sorta di imbroglio diplomatico-militare. La Turchia autorizza soltanto i raid contro l’Isis ma l’intesa non comprende la copertura aerea ai miliziani curdi che combattono contro i jihadisti nel nord della Siria, almeno così affermano le fonti ufficiali del governo di Ankara.
Se così stanno le cose, gli americani dovranno raccontare ai curdi un’amara verità: che in cambio del coinvolgimento della Turchia, membro della Nato da 60 anni, hanno abbandonato, almeno in parte, la loro “fanteria” che combatte strenuamente da oltre un anno contro i jihadisti. Un deludente esempio di come esportare princìpi e valori occidentali dopo avere incensato l’”eroica resistenza” dei curdi di Kobane.
Ma i guai potrebbero non finire qui. L’intervento delle forze armate turche è appena iniziato è già gli arabi reagiscono con veemenza. Dura la presa di posizione del primo ministro iracheno Haider al Abadi, che ha bollato la campagna turca contro le postazioni del Pkk nel Nord dell’Iraq come «una pericolosa escalation e un assalto alla sovranità dell’Iraq». In un tweet Abadi ha assicurato comunque che Baghdad «si impegna a impedire qualsiasi attacco diretto verso la Turchia dall’interno dell’Iraq», e chiede ad Ankara di «rispettare le buone relazioni tra i due Paesi».
In difficoltà appare anche il leader del Kurdistan iracheno Massud Barzani, perfettamente cosciente che sono stati i peshmerga del Pkk a contribuire nell’estate scorsa alla controffensiva dei curdi contro l’avanzata dell’Isis che aveva occupato Makhmur, a mezz’ora di auto dalla capitale Erbil. Barzani appoggia i curdi siriani ma ha anche ottimi rapporti di affari con la Turchia verso la quale esporta gas e petrolio.
Il groviglio turco-siriano-iracheno si complica sempre di più. Preoccupata la Germania, anche per motivi di politica interna, avendo una forte presenza curda in casa. In una telefonata il ministro degli Esteri tedesco, Walter Steinmeier, ha concordato con Massoud Barzani sul fatto che «il Pkk e la Turchia debbono riprendere il processo di pace». Ma sembrano affermazioni di prammatica di una diplomazia, quella europea, più preoccupata di compiacere la Turchia che di combattere il Califfato.