29 luglio 2015
Ecco chi è Stefano Esposito, il neo-assessore ai Trasporti di Roma voluto da Renzi e Orfini. Dice che si dimetterà da vicepresidente della commissione trasporti della Camera ma rimarrà nella commissione. Parla di Mafia Capitale, dell’Atac e del Giubileo. Intanto però si dice soddisfatto: «Per uno che si chiama Esposito e viene da Santena, è un onore straordinario poter dare una mano alla Capitale d’Italia». Polemico, pessimo carattere («Ma sono leale»), pro Tav (ci ha scritto anche un libro) e juventino. (Auto)Ritratto di un torinese in Campidoglio
la Repubblica
Visto dal fondo della sala, seduto sugli scranni della giunta nell’aula Giulio Cesare, è un paio d’occhiali appoggiato sui banchi. Non è certo un Marcantonio, Stefano Esposito, e fa un certo effetto vederlo lì, in mezzo alle statue dei senatori che furono. Anche lui è diventato senatore, duemila anni dopo. Manterrà il doppio ruolo ma garantisce: «Non c’è possibilità di cumulo tra l’indennità di assessore e quella di senatore. Se ci fosse, ci rinuncerei». Modi spicci, linguaggio sopra le righe sui social network e al telefono, ammette: «Ho un cattivo carattere». Se ne sono accorti i No Tav prima e i gestori del lido di Ostia poi. Insulti, controinsulti, minacce e la scorta.
Chi gliel’ha fatto fare di prendersi anche il mal di pancia dei trasporti a Roma?
«I due Mattei. Orfini e Renzi mi hanno convocato domenica alle 20.30 alla Festa dell’Unità di Roma e mi hanno detto: devi fare l’assessore».
Hanno detto proprio “devi”?«Certo. E io da buon soldato ho obbedito».
Lei è di Torino, Rossi Doria è di Napoli, Marino è di Genova. La Meloni storce il naso: twitta che ci sono pochi romani...
«Vorrà dire che la giunta rappresenta finalmente l’unita d’Italia. È la giunta della capitale o no? Giorgia Meloni dovrebbe riflettere sul fatto che il suo collega di partito Alemanno ha lasciato Roma nella munnezza come si dice a Napoli».
L’Atac è al collasso. Ritardi, autobus rotti, metro che viaggiano con le porte aperte, il New York Times che si lamenta. Come pensa di raddrizzare la situazione?«Ci proveremo. Partirò con il dialogo».Proprio lei, il dialogo?
«Certo. Ci siamo dati 90 giorni. Comincerò a incontrare i sindacati e le altre forze politiche. Proporrò un patto: l’Atac è dei romani, è al servizio dei romani e deve funzionare per i romani. Chi collabora bene».
E chi non collabora?
«Se una forza politica o un sindacato parte dall’idea che la situazione di oggi è positiva, se si oppone al cambiamento necessario, è bene che si sappia che indicherò io stesso ai cittadini chi resiste magari in modo strumentale».
A quale episodio si riferisce?
«Agli autobus che fino al giorno prima funzionavano perfettamente e il giorno dopo si rompono tutti insieme. Per fare un esempio di resistenza passiva».
Lei privatizzerà l’Atac?
«La proposta è stata fatta dal sindaco. Io non ho posizioni precostituite. Prenderemo in considerazione tutte le soluzioni e poi decideremo».
Questa nuova giunta è la terza ripartenza dell’amministrazione Marino. Come mai?
«Perché per troppi anni si è sottovalutato la gravità delle connivenze che caratterizzavano l’amministrazione di Roma».
Parla del periodo di Alemanno?
«Parlo di tutti i periodi. Poi per fortuna piazzale Clodio ha smesso di essere il porto delle nebbie, è cominciata l’inchiesta Mafia capitale e tutto è emerso».
Ma Mafia capitale è ormai alla terza puntata. Anche Marino ha sottovalutato?
«Lo ha detto lui stesso che non immaginava la gravità della situazione. Era difficile da immaginare, del resto. Come era inimmaginabile il coinvolgimento del Pd».
Rimarrà senatore? Perché non dimettersi?
«Mi dimetterò da vicepresidente della commissione trasporti della Camera ma rimarrò nella commissione. Un raccordo tra l’amministrazione e il Parlamento può essere molto utile alla vigilia del Giubileo».
Lei sarebbe mai diventato assessore a Torino?
«Eh non sarebbe stato facile. Un po’ perché il Pd torinese è dilaniato da invidie e gare su chi è più renziano. E un po’ perché non è facile entrare nella giunta di Torino, anche di centrosinistra, chiamandosi Esposito».
Visto dal fondo della sala, seduto sugli scranni della giunta nell’aula Giulio Cesare, è un paio d’occhiali appoggiato sui banchi. Non è certo un Marcantonio, Stefano Esposito, e fa un certo effetto vederlo lì, in mezzo alle statue dei senatori che furono. Anche lui è diventato senatore, duemila anni dopo. Manterrà il doppio ruolo ma garantisce: «Non c’è possibilità di cumulo tra l’indennità di assessore e quella di senatore. Se ci fosse, ci rinuncerei». Modi spicci, linguaggio sopra le righe sui social network e al telefono, ammette: «Ho un cattivo carattere». Se ne sono accorti i No Tav prima e i gestori del lido di Ostia poi. Insulti, controinsulti, minacce e la scorta.
Chi gliel’ha fatto fare di prendersi anche il mal di pancia dei trasporti a Roma?
«I due Mattei. Orfini e Renzi mi hanno convocato domenica alle 20.30 alla Festa dell’Unità di Roma e mi hanno detto: devi fare l’assessore».
Hanno detto proprio “devi”?«Certo. E io da buon soldato ho obbedito».
Lei è di Torino, Rossi Doria è di Napoli, Marino è di Genova. La Meloni storce il naso: twitta che ci sono pochi romani...
«Vorrà dire che la giunta rappresenta finalmente l’unita d’Italia. È la giunta della capitale o no? Giorgia Meloni dovrebbe riflettere sul fatto che il suo collega di partito Alemanno ha lasciato Roma nella munnezza come si dice a Napoli».
L’Atac è al collasso. Ritardi, autobus rotti, metro che viaggiano con le porte aperte, il New York Times che si lamenta. Come pensa di raddrizzare la situazione?«Ci proveremo. Partirò con il dialogo».Proprio lei, il dialogo?
«Certo. Ci siamo dati 90 giorni. Comincerò a incontrare i sindacati e le altre forze politiche. Proporrò un patto: l’Atac è dei romani, è al servizio dei romani e deve funzionare per i romani. Chi collabora bene».
E chi non collabora?
«Se una forza politica o un sindacato parte dall’idea che la situazione di oggi è positiva, se si oppone al cambiamento necessario, è bene che si sappia che indicherò io stesso ai cittadini chi resiste magari in modo strumentale».
A quale episodio si riferisce?
«Agli autobus che fino al giorno prima funzionavano perfettamente e il giorno dopo si rompono tutti insieme. Per fare un esempio di resistenza passiva».
Lei privatizzerà l’Atac?
«La proposta è stata fatta dal sindaco. Io non ho posizioni precostituite. Prenderemo in considerazione tutte le soluzioni e poi decideremo».
Questa nuova giunta è la terza ripartenza dell’amministrazione Marino. Come mai?
«Perché per troppi anni si è sottovalutato la gravità delle connivenze che caratterizzavano l’amministrazione di Roma».
Parla del periodo di Alemanno?
«Parlo di tutti i periodi. Poi per fortuna piazzale Clodio ha smesso di essere il porto delle nebbie, è cominciata l’inchiesta Mafia capitale e tutto è emerso».
Ma Mafia capitale è ormai alla terza puntata. Anche Marino ha sottovalutato?
«Lo ha detto lui stesso che non immaginava la gravità della situazione. Era difficile da immaginare, del resto. Come era inimmaginabile il coinvolgimento del Pd».
Rimarrà senatore? Perché non dimettersi?
«Mi dimetterò da vicepresidente della commissione trasporti della Camera ma rimarrò nella commissione. Un raccordo tra l’amministrazione e il Parlamento può essere molto utile alla vigilia del Giubileo».
Lei sarebbe mai diventato assessore a Torino?
«Eh non sarebbe stato facile. Un po’ perché il Pd torinese è dilaniato da invidie e gare su chi è più renziano. E un po’ perché non è facile entrare nella giunta di Torino, anche di centrosinistra, chiamandosi Esposito».
Paolo Griseri
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Corriere della Sera
Ecco chi è Stefano Esposito, tra tav e Juventus
Stefano Esposito guardava il Palazzo di Città come un bambino povero guarda la vetrina di un negozio di giocattoli per ricchi. «Torino non eleggerà mai sindaco uno con il mio cognome».
Era un giorno di maggio del 2010. Sedeva al tavolino di un bar davanti al municipio dove Sergio Chiamparino celebrava la fine del suo secondo mandato con una conferenza stampa dove a sorpresa si disse a disposizione di Pier Luigi Bersani, all’epoca segretario del Pd, all’epoca molto amato dal nuovo assessore ai Trasporti di Roma. Era stato lui a costruire quell’effimero ponte tra i due litiganti, ma la soddisfazione per la precaria opera di ingegneria politica non compensava il senso di esclusione. «Un Esposito, un gaggio delle periferie come me, non sarà accettato nelle istituzioni della sua città».
Quel che spiega meglio Stefano Esposito, la sua vocazione allo scontro, è la convinzione che da sempre si porta dentro di essere un perenne estraneo e sfavorito. La dimensione dell’outsider non è un aspetto del suo carattere, ne è l’essenza. Parla del suo amore per Bruce Springsteen e la E street band, ed è come se parlasse di se stesso. «Sono partiti dal nulla, dal New Jersey che è il nulla, e ce l’hanno fatta». Il passato, quello che sei, ti viene sempre a cercare, anche giornate importanti. «Per uno che si chiama Esposito e viene da Santena, è un onore straordinario poter dare una mano alla Capitale d’Italia. Io, il meridionale della cintura torinese, entro in Campidoglio». Appena gli si fa notare che non conosce Roma, quasi per riflesso pavloviano l’emozione lascia spazio alla ben nota combattività. «Abbiamo visto cosa sono stati capaci di fare gli esperti...».
Le note biografiche lo danno per nato a Moncalieri, che farebbe già un effetto diverso. In realtà è cresciuto a Santena, che è la dove riposa il conte Camillo Benso di Cavour, suo indiscusso idolo politico, ma è anche un posto non dei più allegri con affaccio sulla tangenziale di Torino, enclave calabrese al punto da avere Cosimo&Damiano per santi protettori. Gli Esposito ci arrivarono dalla periferia di Napoli nel 1967, due anni prima della sua nascita. Il padre era operaio alla Ceat, una fabbrica di pneumatici dell’indotto Fiat. «Le mie origini. Penso sempre a quella roba lì. Sono uno che ha fame. Non è solo per me stesso, anche se negli anni riconosco che l’ego è cresciuto. Ma per i miei genitori, e i miei figli».
Anche il suo inverarsi alla causa della Torino-Lione è stato una reazione di contrasto a quella parte del Pd e del mondo intellettuale torinese contrario all’Alta velocità. Al netto degli errori di grammatica nei tweet, come accaduto ieri, Esposito è uno che studia. Ha scritto anche un libro, ovviamente intitolato «Sì Tav», che risponde sul punto a molte osservazioni dei contrari. Le sue risse verbali con gli esponenti del movimento della Val di Susa e la visibilità che ne è derivata gli hanno fatto portato in dote una vita sotto scorta. Ma un artista della polemica come lui non poteva rimanere confinato in quella periferia boschiva d’Italia. L’assiduità su social network e Zanzare assortite ne hanno fatto un personaggio, e spesso ci marcia. Ha accusato Fiorella Mannoia di essere mandante morale dei No Tav. Dopo la finale di Champions league su twitter paragonò i gufi della sua Juventus agli impotenti che esultano se un altro fa godere la loro donna. «Una battuta che girava da giorni. La fa uno del Pd e il solito bel mondo della sinistra, che mi compiaccio di guardare da lontano, si scatena. Lo rifarei, per fare arrabbiare le anime belle».
Dietro alla vis polemica c’è una durezza che sconfina nel coraggio. A Esposito non fanno regali. Il Pd lo chiama quando c’è da prendersi cura del bubbone di Ostia. L’ufficio stampa gli chiede di sfidare Salvini in televisione, perché i volti più eleganti del suo partito hanno paura del confronto con il capo leghista. E lui ci va, sempre e comunque. «Le cose semplici sono sempre affollate di pretendenti. Io mi accomodo altrove». Quando gli dicono se è diventato renziano, risponde dicendo di essere della vecchia scuola. «Che vinca e che perda le mie battaglie, c’è un segretario. Io non sono fedele, sono leale. E mi dispiace che questa abitudine si sia persa tra gli esponenti del mondo ex comunista dal quale provengo». Adesso lo aspetta Roma. «Meglio così. La Torino di oggi mi rattrista».
Ecco chi è Stefano Esposito, tra tav e Juventus
Stefano Esposito guardava il Palazzo di Città come un bambino povero guarda la vetrina di un negozio di giocattoli per ricchi. «Torino non eleggerà mai sindaco uno con il mio cognome».
Era un giorno di maggio del 2010. Sedeva al tavolino di un bar davanti al municipio dove Sergio Chiamparino celebrava la fine del suo secondo mandato con una conferenza stampa dove a sorpresa si disse a disposizione di Pier Luigi Bersani, all’epoca segretario del Pd, all’epoca molto amato dal nuovo assessore ai Trasporti di Roma. Era stato lui a costruire quell’effimero ponte tra i due litiganti, ma la soddisfazione per la precaria opera di ingegneria politica non compensava il senso di esclusione. «Un Esposito, un gaggio delle periferie come me, non sarà accettato nelle istituzioni della sua città».
Quel che spiega meglio Stefano Esposito, la sua vocazione allo scontro, è la convinzione che da sempre si porta dentro di essere un perenne estraneo e sfavorito. La dimensione dell’outsider non è un aspetto del suo carattere, ne è l’essenza. Parla del suo amore per Bruce Springsteen e la E street band, ed è come se parlasse di se stesso. «Sono partiti dal nulla, dal New Jersey che è il nulla, e ce l’hanno fatta». Il passato, quello che sei, ti viene sempre a cercare, anche giornate importanti. «Per uno che si chiama Esposito e viene da Santena, è un onore straordinario poter dare una mano alla Capitale d’Italia. Io, il meridionale della cintura torinese, entro in Campidoglio». Appena gli si fa notare che non conosce Roma, quasi per riflesso pavloviano l’emozione lascia spazio alla ben nota combattività. «Abbiamo visto cosa sono stati capaci di fare gli esperti...».
Le note biografiche lo danno per nato a Moncalieri, che farebbe già un effetto diverso. In realtà è cresciuto a Santena, che è la dove riposa il conte Camillo Benso di Cavour, suo indiscusso idolo politico, ma è anche un posto non dei più allegri con affaccio sulla tangenziale di Torino, enclave calabrese al punto da avere Cosimo&Damiano per santi protettori. Gli Esposito ci arrivarono dalla periferia di Napoli nel 1967, due anni prima della sua nascita. Il padre era operaio alla Ceat, una fabbrica di pneumatici dell’indotto Fiat. «Le mie origini. Penso sempre a quella roba lì. Sono uno che ha fame. Non è solo per me stesso, anche se negli anni riconosco che l’ego è cresciuto. Ma per i miei genitori, e i miei figli».
Anche il suo inverarsi alla causa della Torino-Lione è stato una reazione di contrasto a quella parte del Pd e del mondo intellettuale torinese contrario all’Alta velocità. Al netto degli errori di grammatica nei tweet, come accaduto ieri, Esposito è uno che studia. Ha scritto anche un libro, ovviamente intitolato «Sì Tav», che risponde sul punto a molte osservazioni dei contrari. Le sue risse verbali con gli esponenti del movimento della Val di Susa e la visibilità che ne è derivata gli hanno fatto portato in dote una vita sotto scorta. Ma un artista della polemica come lui non poteva rimanere confinato in quella periferia boschiva d’Italia. L’assiduità su social network e Zanzare assortite ne hanno fatto un personaggio, e spesso ci marcia. Ha accusato Fiorella Mannoia di essere mandante morale dei No Tav. Dopo la finale di Champions league su twitter paragonò i gufi della sua Juventus agli impotenti che esultano se un altro fa godere la loro donna. «Una battuta che girava da giorni. La fa uno del Pd e il solito bel mondo della sinistra, che mi compiaccio di guardare da lontano, si scatena. Lo rifarei, per fare arrabbiare le anime belle».
Dietro alla vis polemica c’è una durezza che sconfina nel coraggio. A Esposito non fanno regali. Il Pd lo chiama quando c’è da prendersi cura del bubbone di Ostia. L’ufficio stampa gli chiede di sfidare Salvini in televisione, perché i volti più eleganti del suo partito hanno paura del confronto con il capo leghista. E lui ci va, sempre e comunque. «Le cose semplici sono sempre affollate di pretendenti. Io mi accomodo altrove». Quando gli dicono se è diventato renziano, risponde dicendo di essere della vecchia scuola. «Che vinca e che perda le mie battaglie, c’è un segretario. Io non sono fedele, sono leale. E mi dispiace che questa abitudine si sia persa tra gli esponenti del mondo ex comunista dal quale provengo». Adesso lo aspetta Roma. «Meglio così. La Torino di oggi mi rattrista».
Marco Imarisio