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 2015  luglio 28 Martedì calendario

I giudici di Papalla che non ritengono la perdita del posto di lavoro un danno, una ferita insanabile alla dignità umana. Parlano d’onore, ma meriterebbero di essere licenziati per manifesta disumanità. Forse, in questo caso, effettivamente, non si tratterebbe di un danno grave

Nel giorno in cui i musi lunghi del Fondo Monetario annunciano che la crisi in Italia finirà soltanto tra vent’anni, alcuni giudici della Cassazione appena sbarcati dal pianeta di Papalla sentenziano che «la perdita del lavoro non costituisce un danno grave alla persona». Un pizzicotto, tutt’al più.
La Suprema Corte si pronunciava sul ricorso di un imprenditore cuneese in causa col Fisco e in affanno coi soldi, che sosteneva di avere usato quelli destinati all’Iva per pagare le retribuzioni dei dipendenti. Che si tratti della verità o del fantasioso alibi di un commosso evasore, non è il punto che qui ci interessa. Ci interessa che i giudici di Papalla non abbiano ritenuto di inserire lo stipendio e il posto di lavoro nella cerchia ristretta dei valori la cui perdita procura una ferita insanabile alla dignità umana. Vi interesserà sapere che in quella lista – oltre ovviamente alla vita, alla salute, alla libertà morale e sessuale – i giudici di Papalla evocano un concetto molto astratto e abusato come l’onore. Ma se vivessero sulla Terra saprebbero che nulla lede l’onore e la considerazione di se stessi quanto la mancanza o la perdita del lavoro. Un giovane disoccupato cronico si vive come un fallito; un cinquantenne licenziato e con speranze quasi nulle di riqualificazione non ha più occhi per piangere e neanche per guardare in faccia i propri figli. Certi giudici meriterebbero di perdere il posto per manifesta disumanità. In questo caso, effettivamente, non si tratterebbe di un danno grave.