La Stampa, 27 luglio 2015
A proposito di Chris Froome, il vincitore del Tour. Alla ricerca delle origini di un campione. Venuto dal Kenya, amava la bici fin da bambino, ma solo a 16-17 anni scoprì il ciclismo vedendo il Tour in tv, così lasciò la mountain bike e passò alla strada. Claudio Corti, il tecnico che lo scoprì: «Faceva la vita da corridore, molto morigerata. In una crono di oltre 50 km prese solo 2’ e mezzo da Cancellara. Capii subito che era un super»
Ha vinto il più forte. Ma anche il corridore con i gregari migliori e il più fortunato, o almeno il meno sfortunato. Chris Froome è la conferma che servono tante componenti per conquistare un Tour de France. Ne sa qualcosa Vincenzo Nibali, che nel 2014 dominò anche perché in 21 tappe non subì né una caduta né una sola foratura, mentre quest’anno ne ha viste di tutti i colori. Ma sarebbe ingiusto sminuire il trionfo del «keniano bianco», che non a caso s’impose già nel 2013 e sempre su Quintana. «Chris era un predestinato» dice Claudio Corti, 60enne tecnico di ciclismo, iridato da dilettante nel 1977 e vicecampione del mondo professionisti nel 1984. Fu proprio Corti a portare quel giovane corridore in Italia e lanciarlo fra i professionisti nel team Barloworld.
Originario del Kenya
Nato a Nairobi da genitori britannici, a 15 anni si era trasferito con la famiglia a Johannesburg, in Sudafrica, dove aveva iniziato a correre la stagione dopo, tardi rispetto alla media dei corridori. «Lo vidi in gara nel 2007 nel Giro di Città del Capo – ricorda Corti -. Cardenas, un mio corridore, vinse la 1ª tappa e 5º arrivò quel ragazzo dalle gambe lunghe e l’andatura caracollante». Era Chris Froome e correva nella Konica. «Lo avvicinai perché mi aveva stupito e gli chiesi se voleva correre per me». Fu la svolta: Froome accettò e si trasferì a Chiari, vicino a Brescia. «Aveva tanto da imparare, non sapeva stare in gruppo e temeva le discese, ma quando spingeva faceva male a molti». I genitori Clive e Jane si erano separati e il giovane Froome fu costretto a crescere in fretta. «Ma era determinatissimo». Chris amava la bici fin da bambino, ma solo a 16-17 anni scoprì il ciclismo vedendo il Tour in tv. E decise che un giorno avrebbe voluto correrne uno. Così lasciò la mountain bike e passò alla bici da strada. «Sapeva quello che voleva, anche nella vita privata. Andò a vivere da solo e non con altri corridori, come avviene di solito. Diceva che così poteva gestirsi meglio e seguire la sua dieta già molto particolare. Ricordo che coltivava una pianta sul balcone e ne mangiava i semi freschi». Tecnicamente aveva già una pedalata vorticosa, «a frullatore», il suo marchio di fabbrica.
Vita morigerata
«Come ragazzo era molto tranquillo, aveva la fidanzata a Milano e spesso la raggiungeva in treno. Ogni tanto gli prestavo la mia 126 perché di lui mi fidavo. Faceva la vita da corridore, molto morigerata». E i risultati non tardarono. «In una crono di oltre 50 km prese solo 2’ e mezzo da Cancellara, che era un super». Debuttò al Tour nel 2008, l’anno del doping di Riccò. «Ma Chris correva pulito, ne sono certo». E si allenava tantissimo. «Dopo una Coppa Agostoni mi disse che sarebbe tornato a casa in bici, così si fece altri 70 km con lo zaino in spalla». Alcuni lo ricordano al Giro d’Italia 2009, da solo in testa sulla durissima salita di San Luca, sopra Bologna: «Era in testa, pedalava agilissimo ma nel finale si piantò. Eppure concluse 6º perché già da giovane non mollava mai. Adesso ha più potenza, deve essersi allenato tantissimo ma per lui la vita monastica e i sacrifici non sono mai stati un problema. Io non glieli ho mai imposti, erano una sua scelta». Con Corti guadagnava 28mila euro lordi all’anno, dopo questo Tour sfiorerà i 3 milioni: ne ha fatta di strada il giovane Chris.