24 luglio 2015
Gianni Mura fa il ritratto a se stesso
Gianni Mura (Milano, 9 ottobre 1945). Giornalista. Critico gastronomico. Confesso che ho vissuto, che ho mangiato, che ho bevuto, che ho sbagliato».
• Si è interessato al cibo quando è diventato giornalista sportivo. È stato il ciclismo ad avvicinarlo alla buona tavola: «Ero giovane, forte, quasi magro e scapolo. Passavo almeno sei mesi fuori casa, dove non m’attendeva una trepida moglie con figlioletti pigolanti, ma solo un padre e una madre abbastanza fieri di quel figlio unico che alla laurea non sarebbe mai arrivato ma un lavoro decente se l’era trovato».
• «Ogni giorno si cambia città. E fin dal mio primo Giro d’Italia, pensando “qui, chissà se e quando ci torno”, ho cercato piatti e vini che non conoscevo, li ho mangiati e bevuti. Sempre così, fossi a Campobasso o a Cuneo, a Irapuato o Pusan (il cane mai, però, giuro), a Jerez de la Frontera o a Montréal, a Brive-la-Gaillarde o a Montevideo».
• A 22 anni il primo Tour con la Gazzetta dello Sport e il primo plateau Royal al Reine Anne di Saint-Malo: «Ricordo la solennità da Bossuet con la quale Bruno Raschi, il caposquadra, chiese quattro plateaux. E la solennità con la quale i camerieri portarono questi vassoi con un’alzata. E, da esordiente in tutti i sensi, imitai quello che facevano gli anziani, gli esperti. A me, per essere sincero, quel che percepivo col naso non prometteva nulla di buono. Ma ero curioso e mi regolai come loro: una fetta di limone spremuta sull’ostrica (che aveva una contrazione, non era più tanto viva ma neanche morta) e ingoiare. Dopo la prima ostrica gli esperti bevvero un sorso di Muscadet, li vidi con la coda dell’occhio mentre schizzavo verso la toilette per improvvisi e non rimandabili problemi di stomaco. Il primo e ultimo plateau della mia vita».
• Da piccolo con i suoi andava in ferie Bellaria, Lanzo d’Intelvi, Invorio e Roseto degli Abruzzi. Le gite scolastiche in corriera avevano quasi sempre per meta dei santuari (Oropa, Padova): «Avevo visto pochissimo, tutto mi sembrava nuovo, da scoprire».
• Da bambino, «siccome ero schizzinoso ed eliminavo tutto il grasso dal prosciutto o dalla bistecca, c’era mia nonna che diceva: “Pensa ai moretti”. Cioè ai bambini africani, affamati, per cui già ritenevo di far qualcosa di utile raccogliendo la carta stagnola e portandola, quand’era un bel po’, alle suore dell’asilo o più tardi all’oratorio. Mai capito come le carte dei cioccolatini, delle gomme da masticare e quelle che foderavano l’interno dei pacchetti di sigarette di mio padre si sarebbero trasformate in cibo. Però ho raccolto, ho accumulato, ho consegnato».
• Non assegna punteggi o voti e non scrive feroci stroncature per due motivi: «Il primo: perché un giorno storto può capitare a tutti. Professionalità finché volete, ma se il figlio del cuoco ha 39 di febbre o il proprietario ha cambiali in scadenza e il locale mezzo vuoto, c’è il rischio che non sia una sosta memorabile. E poi ritengo più utile usare lo spazio a disposizione per segnalare un posto affidabile, senza tacere quello che convince meno ma sottolineando quello per cui vale la pena di fermarsi, ritengo che la lingua italiana sia sufficientemente ricca di sostantivi, aggettivi, verbi e avverbi e che una quarantina di righe permetta un accettabile riassunto di quello che è un ristorante».
• «Se in un sito trovo termini come location, happy hour, trendy, lo boccio a priori. Non parliamo la stessa lingua, non possiamo avere gli stessi gusti o lo stesso palato».
• «Ho la fortuna di avere lettori piuttosto sintonizzati con i miei gusti, gente che bada più alla cena che alla scena, e sono lieto quando posso andare a scoprire, grazie alle loro dritte, locali che non figurano su nessuna guida, persi nella campagna o confusi nelle grandi periferie. Una volta che ho scelto, prenoto sotto falso nome. Non ho una faccia molto nota, vado poco e malvolentieri in tv, ho rinunciato alla fotina sulla rubrica del Venerdì, in genere mi riconoscono solo quando vedono la carta di credito, e non sempre. E se mi riconoscono prima che paghi il conto, a volte su delazione di un avventore, è tardi per impostare un piatto che mi conquisterebbe, secondo il cuoco o il patron, perché magari avverrebbe il contrario, così come è tardi per ovviare a difetti che posso già aver notato».
• Odia il punto esclamativo: «Non ne faccio uso da una quarantina d’anni».
• Ama i salumi, formaggi, uova, pane bianco e vino rosso. Non ama i suchi né i cibi crudi «Continuo a considerare il fuoco una delle migliori scoperte dell’uomo. Quindi niente crudo, né carne né pesce. Questione di gusto. Dovessi giustificarmi scherzosamente in un tribunale del Crudistan, direi che crudo mi fa venire in mente crudele e cotto l’innamoramento».
• Non mangia foie gras («Quando il disgusto per la procedura cancella il gusto del boccone»); spiedini di polpi o di seppie vivi coreani («che muovevano i tentacoli»); Ikizukuri giapponese («Si sceglie un pesce e un esperto cuoco lo sfiletta avendo cura di non ledere gli organi vitali, così il pesce arriva in tavola col cuore che batte, la coda che si muove e gli occhi che esprimono un dolore senza fondo»).
• «Pochi anni fa, in occasione della presentazione di un libro che riguardava Emergency, un ragazzo tra il pubblico si sia alzato chiamandomi assassino e criminale, poi è saltato fuori che ero assassino e complice di assassini perché segnalavo ogni settimana ristoranti in cui si servivano piatti
di carne».
• «Ho sempre cercato di dividere la cena con qualcuno, mangiare da soli è abbastanza deprimente. Se non trovavo nessuno, combattevo la depressione mangiando e bevendo. Non sempre, ma funziona. E non ho mai bevuto per dimenticare».
• «Non ho amici astemi, non per mia scelta. In genere si condivide qualcosa tra persone che hanno più o meno gli stessi interessi, e compagnia, compagno, rimandano al tavolo dove si condivide il pane. Ma, se anche l’avessi, non gli chiederei di accompagnarmi per ristoranti, trattorie e osterie per non guidare. Mi sembrerebbe di avere accanto un badante, mentre è meglio che tutti, tanto più a una certa età, impariamo a badare a noi stessi».
• «Nel ’77 o ’78 Sua Nasità [Gino Veronelli, ndr] mi fece una telefonata inattesa nei contenuti. “Mi sai dire quanto guadagni a Epoca, Gianni?” Glielo dissi. E lui: “Ti garantisco il triplo, ma devi lasciare il giornale e venire con me. Ti metto a disposizione la mia biblioteca, la mia cantina, le mie amicizie, perché hai i numeri per essere il delfino”. Non ne ero così convinto e ci rimasi di stucco. Presi tempo, un paio di giorni, e ci pensai su. Il famoso treno che passa una volta sola. Era come se Pelé m’avesse invitato a fare qualche palleggio con lui al Maracanã. Eppure dissi no, grazie, ancora non me la sento. E con quell’ancora intendevo dire che erano gli anni di piombo e mi sarebbe parso di disertare l’attualità, avevo qualche convinzione sul giornalismo, illusione forse, e non mi vedevo a scrivere per tutta la vita di piatti e di vini. Veronelli la prese bene, era un signore vero, il rapporto continuò come prima, lui a chiedermi dell’Inter e io del kuz (uno stufato della Valcamonica), lui di Pantani e io del nettare d’Yquem, salvo incontrarci sull’amatissimo, da entrambi, Apollinaire».
• Sposato da 42 anni con Paola. Lei è allergica all’aglio («Non è che non lo digerisce, è proprio allergica»).
• «Parla come mangi, diceva mia nonna. Credo d’averla accontentata e a volte m’illudo di mangiare come parlo».
• «Mio nonno pastore di fronte a Guernica avrebbe detto che Picasso non sapeva dipingere».
• «Non so cucinare nemmeno due uova fritte».