Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  luglio 24 Venerdì calendario

Il gusto, il giusto, il guasto. Consigli per scegliere un ristorante

Gusto «Gusto è una parola strana. Aggiungi una vocale prima della u e ottieni giusto, ne aggiungi una dopo e ottieni guasto».
Anagrammi Se l’anagramma di guida è giuda, l’osteria è storia e la dieta è Taide (ovvero «la puttana che rispuose»).
Taide Sozza e con unghie merdose (per forza, essendo nel girone degli adulatori immersi nello sterco). Con lei padre Dante è andato giù pesante (Inferno, XVIII, VV.129-135).
Cucina Negli anni che precedevano il boom hanno calcolato che una casalinga passava in cucina tra le quattro e le cinque ore al giorno. Oggi meno di quaranta minuti. I doni più frequenti alle giovani spose erano due ricettari di cucina: Il talismano della felicità (1929) e Il cucchiaio d’argento (1950).
Modesto «Nell’888, secondo Liutprando da Cremona, Guido duca di Spoleto fu respinto come re dai Franchi perché molto parco a tavola. Pare abbiano detto i Franchi, ma non garantisco: «“Non può regnare su di noi chi si accontenta di un pasto modesto”».
Fame «La migliore salsa del mondo è la fame» (Miguel de Cervantes).
Camionista Esempio di un menu piemontese da camionista: salame crudo e cotto, pancetta, lardo, cotechino, lingua salmistrata, insalata russa, carne cruda, vitello tonnato, insalata capricciosa, acciughe in salsa (verde o rossa), peperoni e bagna caôda, tomini (più o meno elettrici), sottoli e sottaceti, galantina. Primi, o meglio tris di primi (nello stesso piattone): tagliatelle, gnocchi (o lasagne) e risotto. Secondi: carrello degli arrosti, o dei bolliti. Con contorno, ovvio. Un po’ di formaggio, dolce (bonèt, pesche ripiene, panna cotta) e frutta (macedonia, un po’ tramontata). E caffè. E ammazzacaffè, quasi sempre con diminutivo. Un amarino, un grappino, un whiskino, un cognacchino, una sambuchina. Tutto vero, e puntualmente mangiato.
Variante «Un mio amico di Parma ha un sistema che si potrebbe definire «variante del camionista», anche perché non circolano molti camion nelle città. Si mette vicino a un ristorante e guarda quelli che entrano. Se entrano manager col Rolex,  donne con tacco 12 e pelliccia, va altrove. Se entrano indigeni dall’aspetto di operai, insegnanti, impiegati, sa che si troverà a suo agio e non rimpiangerà la sosta. Entra senza nemmeno guardare il menù affisso fuori».
Guide La prima guida con riferimenti gastronomici è quella del Touring (1931). La Michelin viene pubblicata nel 1900 in Francia e dopo cinquantasei anni arriva l’edizione italiana (punto più a sud: Siena). La guida dell’Espresso è del 1978, I ristoranti di Veronelli del ’79, ma qui mi piace ricordare la serie (interrotta) delle Guide all’Italia piacevole (1968).
Scelta La scelta di un ristorante passa da tre vie: esame comparato delle guide, segnalazioni che arrivano dai lettori, consultazione dei siti dei ristoranti e dei relativi commenti: «Se interessa la percentuale di affidamento che riconosco alle tre vie, eccola: 55, 40, 5».
Choix «Mourut de faim, de peur de faire un choix» (Voltaire). [Morì di fame per la paura di scegliere]
Poker Antipasto, primo, secondo, dolce.
Crimini Alcuni crimini gastronomici: lamelle di tartufo bianco su innocenti ostriche, limone spremuto su una croccante frittura di paranza («si ammoscia all’istante»). Orata al forno cosparsa d’aglio («Il sapore dell’aglio ammazza quello dell’orata e del mare»), spaghetti alle vongole sommersi da cucchiaiate di formaggio, o peggio ancora da abbondanti grattugiate di bottarga («La bottarga finisce per sovrastare le vongole. Non è un matrimonio d’amore e nemmeno di interesse»), lettuccio di lattuga, valerianella o indivia croccante sotto alla filetto di carne o pesce («Col calore si le foglie appassiscono»), Barolo di grande annata bevuto su una catalana di astice («L’ho visto fare a dei russi, ma non è una consolazione»).
Barolo Nils Liedholm che in Svezia era membro della Lega antialcolica, quando e arrivò in Italia il medico del Milan che lo trovò anemico gli incluse nella dieta un bicchiere di Barolo a pasto. E infine, nel Monferrato, a Cuccaro, Liedholm divenne produttore di vini.
Specialità Quelle preferite dagli svedesi secondo Liedholm sono «la narice d’alce bollita e i surströmming, ma possono anche non piacere. Sono aringhe fermentate in barili messi al sole».
Cliente Il cliente non ha sempre ragione può essere un cafone arricchito e avere torto.
Ristoratore Se il ristoratore non ristora tradisce non solo l’etimo ma anche l’avventore.
Street food Quando un’arancina a Palermo, un panino con il lampredotto a Firenze, con la porchetta a Roma. si chiamavano cibo da strada erano poco considerati, ma ora che vengono chiamati street food (la stessa cosa, ma volete mettere l’inglese?) sono di gran moda.
Felicità «Invitare una persona è occuparsi della sua felicità per tutto il tempo che essa passa sotto il vostro tetto» (Jean Anthelme Brillat-Savarin).
Brillat-Savarin (Belley, 1º aprile 1755 – Parigi, 2 febbraio 1826). Magistrato, si rifugiò in Svizzera e poi a New York durante il Terrore. Instaurato il Direttorio, tornò in Francia, rivestì la carica di consigliere di Cassazione. Scisse la Fisiologia del gusto e lo pubblicò a sue spese nel 1825. Il libro ebbe molto successo ma l’autore non fece in tempo a goderne perché morì nel febbraio dell’anno successivo.
Massime Alcune massime di Brillat-Savarin: «Cuoco si diventa, rosticciere si nasce». «Mangiando proviamo un benessere indefinito e particolare che ci deriva dall’istintiva coscienza che mangiando compensiamo le nostre perdite e prolunghiamo la vita». «Un dessert senza formaggi è come una bella ragazza senza un occhio». «Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei». «Per la felicità del genere umano la creazione di un nuovo piatto è più importante della scoperta di una nuova stella». «Un pasto senza vino è come un giorno senza sole». «Chi invita gli amici e non presta attenzione al pasto che è stato preparato per loro non merita di avere amici». «Il numero dei sapori è infinito». «Il gusto è ancora quello, tra i nostri sensi, che tutto considerato ci procura il maggior numero di godimenti».
Disappunto Scala Mercalli di frasi di disappunto: disappunto: 1. Carino, davvero. Forse mi aspettavo un po’ di più. 2. Si vede che il cuoco è giovane. 3. Ma tu ci eri già stato? 4. Un po’ di alti e bassi, ma la stoffa c’è. 5. Il dolce è la cosa che m’è piaciuta di più. 6. Senza infamia e senza lode, ma quanto se la tirano. 7. Non te la prendere, una giornata no capita a tutti. (Sottinteso: ma proprio quando c’eravamo noi doveva capitare?) 8. E gli hai pure lasciato una bella mancia. 9. La prossima volta tocca a me. 10. E se adesso andassimo a farci una pizza?
Attenzione «Non si può mangiare distrattamente un minestrone alla genovese né un couscous alla trapanese. Non si può aver fretta davanti ai bolliti misti ed eventuali accompagnamenti: salsa verde, mostarda, rafano, olio e sale grosso».
Critici gastronomici «Nella visione popolare, si tratta di gente che s’ingozza senza spendere un euro, e questa è la visione più benevola. La meno benevola è che intaschino pure una mazzetta per scrivere bene di questo o quel locale».
Uomo nero Valerio M. Visintin, del Corriere, che pur di mantenere segreta la sua faccia nelle occasioni pubbliche appare come l’Uomo nero: nero il cappello, neri gli occhiali, nero il passamontagna, nero il pastrano, nera la sciarpa, neri i guanti e il maglione, nere le brache e le scarpe. Paga in contanti. Di lui si sa che è tifoso dell’Inter e sulla cinquantina. Ovviamente al ristorante si presenta a viso scoperto, e vorrei ben vedere: rischierebbe di spaventare i clienti e il ristoratore chiamerebbe la polizia. Così, invece, Visintin è diventato una sorta di Zorro de noantri, difensore dei clienti oppressi e smascheratore mascherato di tutti quei cialtroni che mangiano a sbafo, o pigliano le mazzette, o sono pappa e ciccia (è il caso di dire) con la controparte.
Circo «Chacun son cirque» (Prévert).
Gastrite «I giornalisti di ciclismo si dividono in due categorie: con la gastrite e senza. I primi, da Livigno a Porto Empedocle, riso in bianco e fettina di vitello con contorno di verdure bollite. Da bere, acqua minerale naturale. I secondi, di cui facevo parte, di tutto e di più».
Giornalisti sportivi Giornalisti sportivi si sono occupati di gastronomia. «Orio Vergani è stato tra i fondatori dell’Accademia della cucina italiana. Il nomadismo imposto dallo sport lascia solchi nel gusto. È stato così per Abel Michéa dell’Humanité, per Gianni Brera, in tempi più recenti per Paolo Marchi e Roberto Perrone».
Economia «La cucina di un paese non è mai separata dalla sua storia e dalla sua economia».
Dimenticare «Bisogna bere per ricordare e mangiare per dimenticare» (Vázquez Montalbán per bocca di Pepe Carvalho).
Bevitore «L’ubriaco sta al vino come lo stupratore all’amore. Che grande bevitore non è chi beve tanto, troppo, ma bene e il giusto» (Gianni Mura).
Guidare «Non guidare, ricordati che devi bere» (così in alcune osterie in Friuli).
Astemio «Ogni astemio ha qualcosa da nascondere» (Baudelaire)
Gino Veronelli/1 «Le lion ivrogne, il leone ubriacone, in un mio anagramma che
tanto gli piacque da farne uno pseudonimo».
Gino Veronelli/2 Luigi (Milano 2 febbraio 1926 – Bergamo 29 novembre 2004). Figlio di un piccolo industriale che gli aveva fatto assaggiare il primo bicchiere di vino rosso il giorno della prima Comunione.
• Superata la maturità classica, Veronelli come regalo chiese una settimana senza limiti di spesa a Londra, all’hotel Savoy, nelle cui cucine lavorava un famoso chef italiano, Cesare Balestrieri. Arrivato al ristorante ordina il piatto più costoso della casa: «Dopo venti minuti, con grande cerimoniale e cloche di rito, arriva il piatto. Due uova al burro. “Solo due uova al burro?”, chiede Veronelli. E il direttore di sala: “Non ‘solo’ due uova al burro. Sono due uova al burro perfette, perché dentro c’è tutta l’esperienza e la bravura dello chef Balestrieri”».
• Terminati gli studi di filosofia, assistente di Giovanni Emanuele Botrè, collaboratore di Lelio Basso, Veronelli, grazie all’eredità paterna, diventa editore. Svariate collane. I socialisti francesi (Fourier, Prudhomme), la narrativa (Anatole France, Sade), la poesia (La ragazza Carla di Elio Pagliarani, ma anche D’Annunzio), lo sport, la cucina.
• Sade (Historiettes, contes et fabliaux) lo traduce e lo edita. È condannato per pubblicazioni oscene (tre mesi). Ultimo caso in Italia, i libri sono bruciati nel cortile della questura di Varese. Lui, intabarrato, guarda il rogo e batte le mani. Il mondo di Pannunzio era il suo punto di riferimento. Aveva scritto a Pannunzio sperando in un appoggio contro «una sentenza liberticida» ma la risposta era stata: «Non mi occupo di pornografia».
• Aveva una biblioteca con oltre diecimila libri, un centinaio scritti da lui, e una cantina con circa settantamila bottiglie.
• Per lui uguaglianza non era solo una parola. Aveva lo stesso atteggiamento, la stessa attenzione, sia parlasse con il più umile dei contadini sia col ministro dell’Agricoltura.
• Si dichiarava anarchico dal 1946, dopo aver ascoltato Benedetto Croce a Milano. Era stato tra i fondatori del movimento Terra e Libertà.
• Giorno dopo giorno era diventato quasi cieco, ma non è per questo che suonano profetiche alcune righe che scrisse nel 1998: «Solo oggi, più che settantenne, vedo con chiarezza: il potere ha utilizzato – con un vero e proprio capovolgimento dei propositi – ciò che era nei nostri sogni, anziché far l’uomo più libero con il progresso, la scienza, la macchina, la cultura ecc., renderne più rapido e sicuro l’asservimento. Ogni scoperta e ogni invenzione – nate tutte (oso credere) dal proposito di essere vantaggiose all’uomo – sono state deviate e utilizzate contro l’uomo. Basta guardarsi attorno, con un minimo di senso critico e morale e ci si accorge che tutto, ma proprio tutto, viene attuato per renderci servi. Un tentativo che – pur essendo tutt’altro che escluse le violenze e le atrocità dei vari fondamentalismi (sotto le tante maschere, religione ed etnia in primis) – aggredisce l’uomo, con i mezzi suadenti della comunicazione di massa. Chiaro e orrifico il fine: non più individui, non più cittadini, ma milioni di uomini e donne, senza volto né storia, servi».
• «Nasità, come l’avevo ribattezzato in vita, per via del prodigioso tubero che la natura gli aveva piazzato in mezzo alla faccia e gli permetteva di cogliere in un calice di vino non solo profumi, ma musiche, poesie, volti di donna».
Punto esclamativo Mura odia il punto esclamativo: «Non ne faccio uso da una quarantina d’anni».
Recensione Recensione tipo su Tripadvisor: «Bravissimi!!!! Ci sono stata col mio ragazzo la sera di san Valentino e ci hanno fatto tante coccole!!! Carpaccio di pesce straordinario!!! E per finire, wow!!, una mousse di cioccolato pazzesca!!! E in più ci hanno omaggiato del limoncello!!!!»
Tripadvisor Secondo Tripadvisor il miglior locale di Milano è una catena che fa patatine olandesi. La stessa insegna appare a Napoli al 1.157 posto su 1.887 locali.
Tripadvisor/2 Quel che molti ristoratori lamentano è di non potersi chiamar fuori da TripAdvisor, cosa possibile con le guide. Gualtiero Marchesi lo ha fatto, con la Michelin. «Ma la replica ai ristoratori è quasi ovvia: un pubblico esercizio non può sottrarsi al giudizio del pubblico».
Trippadvisor «Un piccolo applauso interno l’ho riservato a una locanda di Verona, sotto i portici di via Sottoriva, specializzata in quinto quarto, che sulla vetrina aveva scritto: Aderiamo a Trippadvisor. L’anonimato è una brutta bestia».
Oscar’s Nell’estate del 2013 un albergatore di Brixham, una cittadina nel Devon, sul mare, è amareggiato dalle recensioni negative, alcune chiaramente fasulle. Un suo amico, per tirarlo su di morale s’inventa un ristorante, Oscar’s, con tanto di gestori, tali Alfredo e Colette, location, è ricavato in un battello da pesca ormeggiato nel porto, e di camerieri, che indossano mute da sub e si tuffano per pescare i pesci richiesti: «Oscar’s si fa un nome e piovono le recensioni entusiastiche: “Semplicemente divino”, “Vale una stella Michelin”. Piovono recensioni anche da parte di chi non ci è mai stato, per il semplice fatto che Oscar’s non esiste se non sul web. Ma chi non lo sa ci tiene a figurare tra gli happy few. I più cocciuti, quelli che insistono per provarlo (chissà, magari qualcuno ha rinunciato alla prenotazione) e ci vanno in auto o in taxi, all’indirizzo non trovano un ristorante semplicemente divino ma un vicolo pieno di cassonetti per la spazzatura. E a quel punto partono le segnalazioni giuste: occhio, il ristorante non esiste, le recensioni sono fasulle. E TripAdvisor lo cancella. In due mesi l’inesistente Oscar’s aveva risalito la classifica come un salmone la corrente: era al 27° posto su 64 ristoranti di Brixham».
Minacce «O mi fai uno sconto o mando un feedback negativo» è il messaggio del cliente (non tutti,
per fortuna) prima di pagare il conto. Un ristoratore: «Finché si tratta di un amico, capisci che scherza, ma se te lo dice uno che non hai mai visto prima c’è di che preoccuparsi. Anche perché non si sa bene cosa rispondere. Io tiro avanti a fatica, come tanti. La crisi non è un’invenzione. Ho i prezzi all’osso, fare uno sconto significherebbe ammettere che ho rubato sul conto. Ma non è così e quindi sconti non ne faccio. Ma questo piccolo ricatto da parte del cliente è un fenomeno in aumento».
Stelle Una stella in più o in meno può valere il 25% del fatturato.
Bernard Loiseau (Chamalières 13 gennaio 1951 – Saulieu 24 febbraio 2003). Chef.
• Aveva le tre stelle dal 1991, era l’unico chef quotato in borsa, negli ultimi cinque anni aveva aperto tre locali a Parigi e firmato piatti venduti nei supermercati.
• Da 19/20 era passato a 17/20 nella valutazione di Gault&Millau e non se ne dava pace. Si uccise sparandosi una fucilata in bocca.
• Un collega famoso e più anziano, Paul Bocuse, s’indignò: «I vostri giudizi sono costati la vita a un uomo. Non possiamo stella, ti do dei punteggi, te li tolgo. I critici sono come gli eunuchi: sanno, ma non possono».
Eliporto «In Francia i cuochi hanno un’altra mentalità. Quando è arrivata la seconda stella, con mia moglie ci siamo chiesti se fosse il caso di allargare il vano-cucina. In Francia avrebbero costruito un eliporto per la clientela» (Fulvio Pierangelini).
Franco Colombani (Maleo (Lodi) 28 dicembre 1935 – Maleo 27 maggio 1996). Patron del Sole di Maleo uno dei migliori ristoranti della Lombardia. Figlio e nipote di Osti.
• Era molto colto, Colombani Studente di ingegneria a Pisa, aveva interrotto gli studi per occuparsi della trattoria di famiglia, a Maleo, al confine tra Lombardia ed Emilia. Due volte eletto presidente mondiale dei sommelier. Appassionato collezionista di libri antichi.
• Quando, spazzolata un’insalata di lombo di lepre, uvette e melograno, un cliente francese gli disse compiaciuto: «C’est de la grande Nouvelle cuisine», lui abbozzò un sorriso e depose sul tavolo il libro di Bartolomeo Scappi che gli aveva ispirato il piatto. E gli disse: «1685, monsieur, donc plus ancienne que nouvelle».
• Era il 1980 quando Colombani pubblicò il manifesto di Linea Italia in Cucina, con le adesioni di colleghi più giovani, alcuni destinati alle tre stelle (i Santini di Canneto sull’Oglio). Parve, allora, una controffensiva nei confronti della Nouvelle cuisine, e in parte lo era (no agli ikebana nei piatti). Ma era molto di più: da un lato la rivendicazione di un tesoro unico al mondo, le mille e mille ricette regionali italiane, dal Friuli alla Sicilia, dall’altro un monito alla categoria: no ai tris di primi, no alla panna. E, soprattutto, non si cucina per le stelle ma per la soddisfazione del cliente. E mai seguire le mode.
• Morto suicida, steso sul letto con un sacchetto di plastica stretto intorno al collo. Aveva perso una stella due anni prima ma non s’era ucciso per questo motivo. Le ragioni le sapevano soltanto gli amici più cari. Sul biglietto scritto a biro, lasciato accanto al letto, aveva chiesto tre cose: di non servirsi di quella tal agenzia di pompe funebri, di essere messo nella cassa vestito come in sala, polo blu e pantaloni grigi, e che la bara fosse esposta in cortile, sotto il portico dove facevano il nido le rondini.
Menus Parola di origine francese che compare nel 1761 e sta a significare minuto, particolareggiato: «Si riferiva ai banchetti nelle case dei regnanti, o dei nobili, per anniversari o matrimoni, e stabiliva l’ordine delle portate. Traduzioni: lista o carta delle vivande (mangiare à la carte), nota, distinta. Ma sembrano definizioni polverose. Vada per menù, che lo capiscono tutti».
Prezzi La cosa fondamentale è che ad ogni voce corrisponda un prezzo. Chi sceglie e prenota ha il diritto di sapere in anticipo quanto gli costerà una carbonara e quanto quella tal bottiglia di Aglianico.
Contorni La voce più antipatica di un menù è contorni: «Se leggete “filetto di manzo euro 13” e “insalata verde euro 6”, state alla larga: o è mediocre il filetto o quei venti grammi di lattuga sono andati a raccoglierli sull’Annapurna». Con in piatti da bistrot in Francia l’arrivo contemporaneo e gratuito di patatine fritte è automatico.
Coperto Altre voce antipatica è Coperto: «Nasce, coperto, ai tempi in cui ci si portava il cibo in una gavetta, da casa, e stava a indicare l’apparecchiatura, pur sommaria, della tavola all’osteria. Le posate, un bicchiere, il pane. Solo la Regione Lazio, che io sappia, ha vietato la voce “coperto”. Divieto aggirabile con «pane e coperto», che rimane un po’ fastidiosa ma giustificabile, ascoltando la campana dei ristoratori: anche il pane costa e molti clienti hanno l’abitudine di far fuori un cestino di pane prima ancora di aver scelto i piatti».
Panini Nel 1974, mentre Mura era a St. Moritz per i mondiali di sci (due ori Thoeni, un bronzo Gros), il Corriere d’informazione gli chiese un pezzo su come mangiassero quelli del jet set e non potendosi permettere una cena a fianco dello scià di Persia passò un paio notti nella pizzeria dove si ritrovavano i camerieri, quasi tutti italiani, a fine lavoro. E lì scoprì che «i panini sono minuscoli.
Più è ricco il cliente, più è piccolo il pane».
Errori Il più comune è fois gras («Come posso pensare che tu sappia lavorare il foie gras quando nemmeno sai come si scrive?), poi c’è il classico il vitel tonné («Tanto varrebbe scrivere vitello tonnato»), per Cuvée si trova Cuveé, Cuvèe e Cuveè mentre il Rosé che ha una e di meno diventa solo Rosè; Se Souternes fa eco al souté di cozze e vongole e il Veuve Clicquot perde spesso la seconda c, la Bourgogne zoppica tra i vini (Burgogne) ma anche tra i cibi (fonduta alla burghignonne): «Ora, va bene che viviamo tempi di red carpet, job’s act e ultralight, ma chi vi obbliga all’impasto bilingue? O fonduta alla borgognona o fondue à la bourguignonne. Non è che altrove sia meglio». Possiamo passare al chesscake, forse un dolce a base di scacchi
Sandwiches Casa Savoia che fino al 1907 nelle occasioni ufficiali ha snobbato l’italiano, usando solo il francese. E scivolando, il 29 gennaio 1887, sull’inglese: «Sandwicks variés».
Vini Le carte dei vini sono le più colpite dagli errori. Il Sassella valtellinese è talvolta rubricato alla voce Veneto («Forse perché fa rima con Valpolicella»), e qualche volta al Dolcetto capita di finire tra i vini dolci. Poi c’è Angelo Gaja produce il Gaia&Rey, ma non il Gaja&Rey (Gaia è il nome della figlia) e c’è chi non indica le provenienze delle bottiglie o le vendemmie. Eppure «il cliente ha il diritto di sapere se il Sassicaia è del 2009 o del 1992».
Mancia Negli Stati Uniti la percentuale di servizio è tra il 10 e il 15% del totale, è praticamente obbligatoria, tant’è che sul conto, c’è la voce «tip». Ma in America i camerieri non hanno copertura sindacale, possono essere licenziati dall’oggi al domani e una larga parte del loro stipendio è costituita dalle mance: «Una sera del ’94 a New York un cameriere cinese inseguì indignato me e due miei colleghi. Avevamo arrotondato la mancia a 18 dollari complessivi, mentre, calcolatrice alla mano, lui esigeva altri 36 cent».
Obolo In Italia la mancia non è obbligatoria ma gradita. In media si lascia il 10% del conto: «Naturalmente. Se pagate 48,50 euro e ne lasciate 50, più che una mancia è un obolo’.
Menù-degustazione Menù a prezzo fisso. Conviene al cuoco e al cliente, che alla carta spenderebbe certamente di più e così può comunque farsi un’idea della bravura o meno di chi sta ai fornelli. Tenga conto che le porzioni sono ridotte, rispetto all’identico piatto scelto dalla carta.
Bartali «In Francia si discute spesso: mi va bene il menù da 35 euro, ma posso avere il dolce di quello da 28 e l’entrée di quello da 42? Non, monsieur, pas possible. In verità, è possibile ma non conviene. Si potrebbe anche nella douce France, con il menù-degustazione, non fosse la violazione di un rito. E non conviene insistere perché i francesi s’incazzano ben più di quando vinceva Bartali».
Pesce «Cara Donna Letizia, lei ha scritto che non si può tagliare il pesce con un coltello da carne. Ebbene, io ho provato e si può» (lettera a Donna Letizia nella rubrica di galateo)
Marketing «Geniale strategia di marketing negli anni Sessanta, la prima che ricordi, in un ristorante abruzzese di Milano, davanti all’ospedale Fatebenefratelli. Su tutti i posacenere, quadrati, di medie dimensioni, c’era scritto a stampatello: “Me le so arrubbate a la Taverne de lu Gran Sasse”».
Consigli Stare alla larga da: I ristoranti ai siti troppo autoreferenziali («Il miglior abbacchio di Roma. Se fosse vero, non ci sarebbe bisogno di scriverlo»), che usano superlativi («Una paradisiaca oasi di gusto. I superlativi s’afflosciano come soufflé mal riusciti, da quelli che hanno i bagni sporchi, da quelli che hanno insegne a neon («vanno bene per night e bar») e luce troppo fioca («Favoriscono l’intimità ma non permettono di vedere bene quel che c’è nel piatto»), dai locali che non rispondono al telefono alle 10.30 del mattino, dai posaceneri pieni («Se arrivate per pranzo e lo trovate pieno di cicche delle sera prima, non è buon segno») e dall’hosteria («Tollerate l’hostaria a Roma per via del latinorum, anche se  compare in un documento ufficiale nel tredicesimo secolo non a Roma ma a Venezia: in un capitolo di magistratura dei Signori della notte, che badavano alla tranquillità notturna).
Bottura «Quello che per me è il miglior ristorante italiano, di Massimo Bottura a Modena, si chiama Osteria Francescana. Ubicata in via Stella, ha tre stelle e non è certo un’osteria».
Osterie «Amo le osterie, sono migliorate molto da quando erano praticamente vietate alle donne, escluse quelle che ci lavoravano: antri fumosi in cui si giocava a carte e volavano più bestemmie che mosche. Erano comunque un luogo di ristoro e socializzazione, come la piazza della chiesa»
Zuppa Paolo Monelli scrisse Il ghiottone errante nel 1935. «È la raccolta di una serie di servizi per la Gazzetta del popolo. Con Monelli, cultore della buona tavola e bevitore egregio, girava l’Italia il disegnatore Novello, astemio e magro. Modernissimo, Monelli. “Emana un respiro di orti e crepuscolo” il suo parere su un pollo alla diavola. E su un Lacryma Christi del Vesuvio: “Saporoso, potente, giallo ducato, denso del fuoco sotterraneo che si cova i vigneti arrampicati sul fianco del vulcano fra lave nere e ginestre pioniere”. E se andassimo a tavola? “A Sestri c’è una di quelle rare osterie dove servono ragazze belle e buone, e cchiù meglio è la patrona: rare, ormai, ché tutte vogliono avere il camerieruccio con lo smochinghino o in giacchetta nera, anche le più umili. Qui tre bellissime figliole portano il ciupìn, e gli occhi di carbonella della patrona ve lo condiscono. Il ciupìn, o zuppa di pesce. Descriveremo la zuppa di pesce agli italiani? Qui la zuppa è servita in due piatti, in uno la zuppa propriamente detta, un brodo forte, aromatico, odoroso di mare, con fette di pane dentro; nell’altro i pesci di scoglio e gli scampi polpi calamai che han fatto quel brodo».
Zuppa «Ecco a voi la zuppa di fragole e la torta di fagioli. “È del poeta il fin la meraviglia. Chi non
sa far stupir vada alla striglia». Dalla poesia barocca del Seicento e dai versi di Giovan Battista Marino alla cucina dei nostri anni il “far stupir” è una costante».
Piatti «Mi preoccupa la sparizione dei piatti fondi, usati soprattutto per alcuni dessert. I primi, se non sono minestre, sempre in piatti piani. Non c’è una spiegazione logica. Forse riescono meglio le fotografie».
Nouvelle cuisine «Il piatto è svelato in tavola alzando una cloche, possibilmente d’argento.  Il sottopiatto è d’argento, mal che vada di peltro. Le tovaglie: lino di Fiandra, anche lunghe fino al pavimento e quindi d’imbarazzo quando ci si siede. Sedie: Thonet. Bicchieri: Riedel. Bottiglie: mai sul tavolo, stiamo scherzando?  Provvede il sommelier. Il piatto è molto più ampio di quelli visti fin qui, quasi sempre bianco. È come la tela che attende la creazione dello chef. Lo chef è quasi sempre un uomo, e comunque il femminile di chef non esiste».
Sceffa Solo a Firenze ho trovato una sceffa e a Roma, al Settembrini, Luigi Nastri che non vuole esser chiamato chef. «È una parola che non esprime un lavoro, solo un grado, un rango. Io sono un cuoco»
Futurismo Il Manifesto della cucina futurista viene pubblicato sulla Gazzetta del Popolo il 28 dicembre 1930. Prima della guerra Marinetti aveva aperto a Parigi un ristorante in società con Jules Maincave, uno chef che aveva scritto: «Noi vogliamo una cucina adeguata alla comodità della vita moderna e alle ultime concezioni della scienza. Noi proietteremo i raggi del nostro sole nell’antro delle vostre cucine, e le tenebre saranno dissipate. Noi metteremo sottosopra i vostri buffet, noi rovesceremo i vostri fornelli».
Marinetti Era astemio e quindi lo si deve perdonare per questa ricetta di Polibibita (versione italiana di cocktail) chiamata Decisone: un quarto di vino Chinato, uno di rum, uno di Barolo bollente, uno di sugo di mandarino. Era astemio ma beveva moltissimo caffè ed era soprannominato Caffeina d’Europa. E la guerra dichiarata alla pastasciutta sarebbe sottoscritta, con altre parole, da molti dietologi contemporanei: «Una vivanda passatista perché appesantisce, abbruttisce,
illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti».
Uomo «L’uomo è ciò che mangia» (Feuerbach).
Vista «Ci si ingegna a glassare le superfici, a sommergere la vivanda sotto il levigato sedimento delle salse, delle creme, dei fondants e delle gelatine. La cucina di Elle è una pura cucina della vista. Ha il ruolo di presentare a un immenso pubblico popolare il sogno stesso dell’eleganza. Di qui una cucina del rivestimento e dell’alibi, che si sforza sempre di attenuare o anche travestire la natura primaria degli alimenti, la brutalità delle carni o l’asprezza dei crostacei (…) I glassati servono da fondi per decorazioni sfrenate: funghi cesellati, ciliegie disseminate, spezzature di tartufi. Fuggire la natura grazie a un barocco delirante e tentare di ricostruirla con artificio strampalato» (così Roland Barthes in Miti d’oggi, nel 1957.).
Foto Oggi prima di essere assaggiati i piatti vengono fotografati dai clienti: «Ai tempi della Nouvelle cuisine il massimo del ricordo era chiedere allo chef un menù, che a volte firmava, e portarselo a casa. Mentre oggi all’esasperato collezionismo visivo fa eco una cucina sensibile all’estetica del piatto».
Diffidare Diffidare dall’insalatona dello chef («spesso trattasi di riciclaggio»); mare e monti («In
genere monti indica funghi, freschi o secchi. Che col mare non legano molto»), dal carpaccio di ananas («perde il succo»), rivisitata/o («ci ho messo il mio tocco»); dalle infiocchettature («mortadella tartufata; cacciucco livornese con gli scampi o tonnarelli, cacio e pepe con i fiori di zucca: è reato di lesa caciopepità).
Perfezione «La perfezione è raggiunta non quando non c’è più niente da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere» (Antoine de Saint-Exupéry)
Carpaccio Piatto che Giuseppe Cipriani inventò per una cara cliente dell’Harry’s Bar, la contessa Amalia Nani Mocenigo, cui il medico aveva prescritto una dieta senza carne cotta: «Lo chiamò come il pittore Vittore Carpaccio, che nel 1963 era esposto a Palazzo Ducale. Appassionato d’arte, Cipriani trovò un’affinità tra i colori del piatto, un rosso vivo alla Carpaccio con colature di maionese bianco-gialla irrobustita dalla salsa Worcester. La carne, sottofiletto di manzo, doveva essere fresca, non scongelata. Cruda e tagliata a fettine sottilissime, un po’ come la carne all’albese. Con l’iniziale minuscola, il piatto ebbe un grandissimo successo in tutto il mondo. Siccome era perfetto, nella sua semplicità, nacquero le varianti peggiorative: le scaglie di formaggio, la rucola,  il tartufo, l’aceto balsamico di serie c. Poi l’allargamento al mare: carpaccio di polpo, di tonno, di branzino.
Bellini Cipriani inventò anche il cocktail Bellini (due terzi di prosecco, un terzo di pesca bianca veronese non frullata ma schiacciata): «Bellini perché il colore del cocktail ricordava a Cipriani quello della tunica di un santo dipinto da Giovanni Bellini. Si può fare anche con l’albicocca? Forse sì, ma allora gli si cambia nome. Non si scherza nel mondo dei cocktail con quel che è codificato. Quello del cibo è più frufrù».
Sale «Per quelli della mia generazione  il sale, bianco,  si comprava dal tabaccaio. Due tipi: fine e grosso. Negli anni Ottanta s’è fatto strada il fleur de sel, della Camargue o di Guérande. L’Italia ha risposto con Cervia, Mozia, Sant’Antioco, Margherita di Savoia E a quel punto il mondo ha suonato i suoi tamburi: sale rosa dell’Himalaya, blu di Persia, rosso delle Hawaii, grigio di Bretagna, viola dell’India, detto anche Kala Namak, nero di Cipro, il danese affumicato, l’australiano del Murray River, l’inglese di Maldon, cittadina dell’Essex: si presenta non in cristalli ma in scaglie ed è il più caro, sugli 8 euro l’etto».
Aceto Nei ristoranti: «Nove su dieci, è aceto balsamico di Modena, ullallà. Per essere da ullallà, peccato gli manchi un aggettivo: tradizionale. Il balsamico tradizionale è una gemma italiana, costa un occhio della testa, pochi l’hanno assaggiato e non sanno con quale opulenta grazia accompagni una scheggia di parmigiano stagionato, un petto d’anitra d’arrosto»
Olio «L’olio, parlo dell’extra vergine di oliva, evo per sigla, è uno dei tesori della cucina italiana anche se gli italiani e le leggi Ue molto hanno fatto per umiliarlo, imbastardirlo, appiattirlo. Aglio e olio, più peperoncino, chiamano, invocano gli spaghetti. È uno dei piatti più famosi della nostra cucina,  anche all’estero. Piatto ideale per zingarate fuori orario».
Rucola «L’amatissima rucola ha fama di Viagra vegetale fin dai tempi remoti. In Grecia e a Roma lo testimoniarono Dioscoride, Columella, Plinio. Sarà che a Roma la rucola ornava le aiuole dove si trovavano i monumenti a Priapo».
Aglio Antibiotico, antibatterico, antiossidante, regola la flora intestinale. Ne mangiavano crudo gli schiavi che costruivano le piramidi, gli atleti di Olimpia, i legionari romani: ubi allium, ibi Roma. Dà forza e protegge da molti malanni o incidenti, dal raffreddore alle ferite. È vermifugo, combatte l’ipertensione, tiene a bada il colesterolo, è antitumorale (non sempre) e infine sul web è indicato come Viagra a buon mercato. Tiene lontani i vampiri come il malocchio, per chi ci crede.
Letto «I tabù religiosi riguardano solo la tavola e il letto» (Gino Veronelli).
Fragranza Per Neruda l’aglio era «una fragranza iraconda».
Affumicato C’è l’aglio rosa di Lautrec, quello affumicato di Arleux, quello di Caraglio, di Vessalico, di Sulmona, di Resia, di Monticelli d’Ongina, di Nubia e di Voghiera.
Mangiatori d’aglio Nicola Arigliano sgranocchiava almeno tre teste d’aglio al giorno, una appena alzato. Anche Enrico IV che fu battezzato alla béarnese (le labbra del neonato vengono toccate da uno spicchio d’aglio e bagnate con qualche goccia di Jurançon, il vino della regione) ne era una masticatore convinto. Altro agliofilo è Guido Ceronetti: «Non bisogna avere che relazioni superficiali con chi respinge agli e cipolle, perché si tratta di caratteri deboli, incapaci di profondità». Tuttavia consiglia di berci thè:  «È da fuggire chiunque mescoli all’aglio il vino, perché porta disordine e corruzione Ceronetti, piemontese, va contro le sue radici. Funesto errore bere vino. La cattiva compagnia del vino trasforma l’aglio in un sicario, in un fumo da taverna».
Proverbi «L’aglio è la farmacia dei contadini» (lo si dice in Toscana e in Piemonte); «Ail le soir, oignon le matin est le malheur du médecin» (in Alvernia), «Pane, vino e aglio fanno il ragazzo sveglio» (in Castiglia).
Alito Silvio Berlusconi invece ha inibito l’aglio al suo cuoco, Michele Persichini, e anche ai suoi venditori di pubblicità. In tempi più antichi Orazio rinfacciava a Mecenate una cena con troppo aglio («peggio della cicuta»). Alfonso di Castiglia vietava aglio e cipolla ai Cavalieri della Banda, pena allontanamento di quaranta giorni dalla corte. E Shakesperare, in Sogno di una notte di mezza estate: «E soprattutto, attori, anime mie, badate a non mangiare aglio o cipolla, il nostro alito deve riuscir dolce e gradevole».
Supermercati In alcuni supermercati tedeschi, il primo a Düsseldorf all’inizio di questo secolo, vengono diffusi profumi di frutti, erbe, foglie. Che rallentano il passo della clientela e l’invogliano a comprare di più.
Odore «L’odore subito ti dice senza sbagli quel che ti serve di sapere; non ci sono parole, né notizie più precise di quelle che riceve il naso» (Italo Calvino in Sotto il sole giaguaro).
Tartufi Un tempo si cercavano anche con i maiali: «Ma girare accompagnati da un cane, spesso un bastardino, dà meno nell’occhio che passeggiare con un maiale, e questo può scoraggiare quelli che seguono quelli che seguono la pista del tartufo. Secondariamente, è più agevole farsi consegnare un tartufo da un cane, in cambio di una carezza e un buon boccone, che convincere un maiale a rinunciare al tartufo da lui scoperto».
Pina Bellini (San Matteo della Decima 10 settembre 1921 – Milano 2 marzo 1997). Cuoca.
Proprietaria con suo figlio Aldo della Scaletta di Milano.
• La Pina veniva da Decima in Persiceto, prima di sette figli. Il padre, muratore, chiarì subito che di soldi per studiare non ce n’erano. E così a quindici anni lei, che già aveva imparato come tutte le giovani emiliane a tirare la sfoglia, partì per Milano come sfoglina. E fece carriera, in un ambiente molto maschilista.
• Nel 1983 Time la indicò portabandiera della nuova cucina italiana, la definì creativa. Aggettivo che lei respingeva: «Sono i poeti, i musicisti, gli artisti quelli che creano. Io ho solo esperienza e un po’ di fantasia». Mai scritto un libro con le sue ricette, e sì che glielo avevano chiesto in tanti. «La cucina vuole il suo tempo e non me ne resta per scrivere». Umilmente e sempre col sorriso era arrivata alle due stelle, in un punto di Milano che non è più centro e non è ancora periferia, davanti alla stazione ferroviaria di Porta Genova.
• Le specialità della Pina erano semplici (frittatina alla menta, lumache al gorgonzola), spiazzanti (terrina di trippe in gelatina), ispirate all’arte (risotto alla Pollock, con un drapping in nero di seppia). Mura: «Una sera chiesi un piatto da poco inserito in carta con la certezza che non mi sarebbe piaciuto: risotto con porcini e mirtilli. Invece era buonissimo. Quando la misi al corrente dei miei dubbi la Pina disse: “Porcini e mirtilli crescono vicini nel bosco, perché non dovrebbero andare d’accordo nel piatto?”».
• Aldo si occupava della sala. «Servire senza essere servili» era la sua parola d’ordine. Pareva d’essere in un club: tanti libri e oggetti d’arte sugli scaffali di legno scuro, luci giuste, bicchieri veneziani di cristallo sui tavoli, uno diverso dall’altro, mi ha sempre accompagnato il timore di romperne uno ma non è successo. Un luogo d’arte, tant’è che dopo la morte della madre, nel 1997, Aldo divenne gallerista, specializzato nelle sculture in vetro.
Arte «La vita, amico, è l’arte dell’incontro» (Vinicius de Moraes)
Sabato Per diventare chef si studia, si cresce, si è sotto esame, si sbucciano quintali di patate, si eviscerano pesci, si spiumano volatili:  «I ragazzi vogliono sapere se il venerdì o il sabato è libero per andare in discoteca con gli amici, la domenica per la ragazza e la partita. No, dico, sono i tre giorni in cui abbiamo più coperti. La giornata libera è lunedì. Ringraziano e se ne vanno, la vocazione è fragile» (un bravo ristoratore milanese).
Cucchiaio «Di recente ha destato molto scalpore, in Francia, la denuncia di un cameriere di Frédéric Anton. Per punirlo di un errore, uno dei membri della brigata di cucina (poi licenziato) del Pré Catelan gli aveva applicato un cucchiaio rovente sull’avambraccio».
Savoir «Conta il savoir faire, ma anche il faire savoir» (Paul Bocuse).
Turno Gianni Mura odia il doppio turno («Il ristoratore ci guadagna e io ci rimetto»).
Acqua «Sui miei piatti sarebbe meglio bere acqua, il vino può turbarne l’equilibrio» (Gualtiero Marchesi).
Allievi «Gualtiero il maestro dell’ultimo mezzo secolo. Perché è colto (musica, pittura,
non solo lo specifico dei fornelli) e perché ha avviato sulla strada grande un impressionante numero di allievi. Tra questi: Antonino Cannavacciuolo, Vittorio Fusari, Davide Oldani, Ernst Knam, Carlo Cracco, Enrico Crip pa, Marco Viganò, Paola Budel, Paolo Lopriore, Andrea Berton, Pietro Leemann, Adolfo Arcangeli, Gianluca Branca, Patrick Massera, Filippo Costa, Ernst Rothenberger, Michel Magada, Antonio Poli, Riccardo Ferrero, Vittorio Beltramelli, Alessandro Breda, e qualcuno avrò dimenticato».
Caro «Pagare caro è quando un piatto non vale il prezzo che chiedo, quando è deludente la materia prima. Quindi, anche una pizza può essere considerata cara. La mia è una cucina costosa». (Gualtiero Marchesi).
Oliuchenìt (all you can eat). Prezzo fisso 11,90 o 12,90 euro e mangi tutto quello che riesci a mangiare: «È la grande abbuffata di ritorno, la quantità sull’altare: Per la qualità si prega di ripassare».
Mc «Criticare Mc Donald’s è idiozia pura. È un caffè per i poveri, gli anziani, la gente sola, e assolve a un’ammirevole funzione sociale. È pulito, economico, accogliente e ben illuminato. Io ci vado spessissimo, è un luogo umano in un mondo disumano» (Philip Roth).
Agio «Il cliente deve sentirsi a proprio agio in un luogo umano, con davanti un piatto di cibo che capisce, che non è costretto a decifrare».
Talebani «C’è, in cucina, un talebanismo montante. Le ideologie da una politica agonizzante si sono trasferite altrove. Ciclisti vs automobilisti, vegani vs onnivori. Il cibo è argomento di discussione ma anche di scontro. Io, onnivoro con qualche punto fisso (niente selvaggina, niente foie gras, poca carne), penso che ognuno sia libero di mangiare o evitare quello che gli pare. Un vegano vedrà in me un complice dell’effetto serra, mi rinfaccerà gli sprechi d’acqua negli allevamenti dei bovini e il surriscaldamento del pianeta. In una discussione vincerà sempre lui
Insetti La Fao ha stilato un elenco di 1.900 insetti commestibili, dalle formiche alle vespe, dai bachi da seta alle cicale, dai grilli alle libellule. Si sa che l’imperatore giapponese Hirohito era ghiotto di riso e vespe, nella regione colombiana di Santander si mangiano di gusto le hormigas culonas («formiche con quella parte del corpo particolarmente sviluppata»). In Italia il casu marzu sardo e altri formaggi fermentati, detti comunemente «formaggi che camminano» si mangiano insieme ai vermi che li abitano. In Francia nei supermercati si vendono bustine di cavallette fritte e barrette di cioccolato con grilli nell’impasto: «E non c’è via di mezzo nel giudizio: o una squisitezza o una schifezza. In Messico ho assaggiato vermi molto più cicciuti, quelli del cactus, i gusanos de maguey, anche messi dentro le bottiglie di tequila, come in Italia le vipere dentro le bottiglie di grappa. Grigliati, croccanti, sanno di cervella di vitello».
René Redzepi (Copenhagen 15 dicembre 1977). Cuoco del Noma di Copenhagen.
• Eletto miglior cuoco del mondo, allievo di Ferran Adrià.
• Deve parte della sua fama a un piatto a base di formiche vive. Se ne ignora il costo, il piatto è inserito in un menù-degustazione a 200 euro, ma non la composizione. Una colata di yogurt greco su cui arrancano le formiche.
Redzepi le importa dal Brasile e nell’ultimo periodo di vita le nutre con foglie di coriandolo e citronella.
• Redzepi, madre danese e padre macedone, ha ideato anche un pâté di
grilli con granita di nasturzio, ma è destinato a essere
«quello delle formiche». Si propone di fare alta cucina con
ingredienti poveri o giudicati non commestibili (muschi,
licheni, cortecce d’albero).
Consigli/2 Questo libro non vuole essere né una guida né un decalogo, ma solo una serie di consigli disinteressati dopo mezzo secolo abbondante di mangiate e bevute girando l’Italia e il mondo.
Gianni Mura (Milano, 9 ottobre 1945). Giornalista. Critico gastronomico. Confesso che ho vissuto, che ho mangiato, che ho bevuto, che ho sbagliato».
• Si è interessato al cibo quando è diventato giornalista sportivo. È stato il ciclismo ad avvicinarlo alla buona tavola: «Ero giovane, forte, quasi magro e scapolo. Passavo almeno sei mesi fuori casa, dove non m’attendeva una trepida moglie con figlioletti pigolanti, ma solo un padre e una madre abbastanza fieri di quel figlio unico che alla laurea non sarebbe mai arrivato ma un lavoro decente se l’era trovato».
• «Ogni giorno si cambia città. E fin dal mio primo Giro d’Italia, pensando “qui, chissà se e quando ci torno”, ho cercato piatti e vini che non conoscevo, li ho mangiati e bevuti. Sempre così, fossi a Campobasso o a Cuneo, a Irapuato o Pusan (il cane mai, però, giuro), a Jerez de la Frontera o a Montréal, a Brive-la-Gaillarde o a Montevideo».
• A 22 anni il primo Tour con la Gazzetta dello Sport e il primo plateau Royal al Reine Anne di Saint-Malo: «Ricordo la solennità da Bossuet con la quale Bruno Raschi, il caposquadra, chiese quattro plateaux. E la solennità con la quale i camerieri portarono questi vassoi con un’alzata. E, da esordiente in tutti i sensi, imitai quello che facevano gli anziani, gli esperti. A me, per essere sincero, quel che percepivo col naso non prometteva nulla di buono. Ma ero curioso e mi regolai come loro: una fetta di limone spremuta sull’ostrica (che aveva una contrazione, non era più tanto viva ma neanche morta) e ingoiare. Dopo la prima ostrica gli esperti bevvero un sorso di Muscadet, li vidi con la coda dell’occhio mentre schizzavo verso la toilette per improvvisi e non rimandabili problemi di stomaco. Il primo e ultimo plateau della mia vita».
• Da piccolo con i suoi andava in ferie Bellaria, Lanzo d’Intelvi, Invorio e Roseto degli Abruzzi. Le gite scolastiche in corriera avevano quasi sempre per meta dei santuari (Oropa, Padova): «Avevo visto pochissimo, tutto mi sembrava nuovo, da scoprire».
• Da bambino, «siccome ero schizzinoso ed eliminavo tutto il grasso dal prosciutto o dalla bistecca, c’era mia nonna che diceva: “Pensa ai moretti”. Cioè ai bambini africani, affamati, per cui già ritenevo di far qualcosa di utile raccogliendo la carta stagnola e portandola, quand’era un bel po’, alle suore dell’asilo o più tardi all’oratorio. Mai capito come le carte dei cioccolatini, delle gomme da masticare e quelle che foderavano l’interno dei pacchetti di sigarette di mio padre si sarebbero trasformate in cibo. Però ho raccolto, ho accumulato, ho consegnato».
• Non assegna punteggi o voti e non scrive feroci stroncature per due motivi: «Il primo: perché un giorno storto può capitare a tutti. Professionalità finché volete, ma se il figlio del cuoco ha 39 di febbre o il proprietario ha cambiali in scadenza e il locale mezzo vuoto, c’è il rischio che non sia una sosta memorabile. E poi ritengo più utile usare lo spazio a disposizione per segnalare un posto affidabile, senza tacere quello che convince meno ma sottolineando quello per cui vale la pena di fermarsi, ritengo che la lingua italiana sia sufficientemente ricca di sostantivi, aggettivi, verbi e avverbi e che una quarantina di righe permetta un accettabile riassunto di quello che è un ristorante».
• «Se in un sito trovo termini come location, happy hour, trendy, lo boccio a priori. Non parliamo la stessa lingua, non possiamo avere gli stessi gusti o lo stesso palato».
• «Ho la fortuna di avere lettori piuttosto sintonizzati con i miei gusti, gente che bada più alla cena che alla scena, e sono lieto quando posso andare a scoprire, grazie alle loro dritte, locali che non figurano su nessuna guida, persi nella campagna o confusi nelle grandi periferie. Una volta che ho scelto, prenoto sotto falso nome. Non ho una faccia molto nota, vado poco e malvolentieri in tv, ho rinunciato alla fotina sulla rubrica del Venerdì, in genere mi riconoscono solo quando vedono la carta di credito, e non sempre. E se mi riconoscono prima che paghi il conto, a volte su delazione di un avventore, è tardi per impostare un piatto che mi conquisterebbe, secondo il cuoco o il patron, perché magari avverrebbe il contrario, così come è tardi per ovviare a difetti che posso già aver notato».
• Odia il punto esclamativo: «Non ne faccio uso da una quarantina d’anni».
• Ama i salumi, formaggi, uova, pane bianco e vino rosso. Non ama i suchi né i cibi crudi «Continuo a considerare il fuoco una delle migliori scoperte dell’uomo. Quindi niente crudo, né carne né pesce. Questione di gusto. Dovessi giustificarmi scherzosamente in un tribunale del Crudistan, direi che crudo mi fa venire in mente crudele e cotto l’innamoramento».
• Non mangia foie gras («Quando il disgusto per la procedura cancella il gusto del boccone»);  spiedini di polpi o di seppie vivi coreani («che muovevano i tentacoli»); Ikizukuri giapponese («Si sceglie un pesce e un esperto cuoco lo sfiletta avendo cura di non ledere gli organi vitali, così il pesce arriva in tavola col cuore che batte, la coda che si muove e gli occhi che esprimono un dolore senza fondo»).
• «Pochi anni fa, in occasione della presentazione di un libro che riguardava Emergency, un ragazzo tra il pubblico si sia alzato chiamandomi assassino e criminale, poi è saltato fuori che ero assassino e complice di assassini perché segnalavo ogni settimana ristoranti in cui si servivano piatti
di carne».
• «Ho sempre cercato di dividere la cena con qualcuno, mangiare da soli è abbastanza deprimente. Se non trovavo nessuno, combattevo la depressione mangiando e bevendo. Non sempre, ma funziona. E non ho mai bevuto per dimenticare».
• «Non ho amici astemi, non per mia scelta. In genere si condivide qualcosa tra persone che hanno più o meno gli stessi interessi, e compagnia, compagno, rimandano al tavolo dove si condivide il pane. Ma, se anche l’avessi, non gli chiederei di accompagnarmi per ristoranti, trattorie e osterie per non guidare. Mi sembrerebbe di avere accanto un badante, mentre è meglio che tutti, tanto più a una certa età, impariamo a badare a noi stessi». 
• «Nel ’77 o ’78 Sua Nasità [Gino Veronelli, ndr] mi fece una telefonata inattesa nei contenuti. “Mi sai dire quanto guadagni a Epoca, Gianni?” Glielo dissi. E lui: “Ti garantisco il triplo, ma devi lasciare il giornale e venire con me. Ti metto a disposizione la mia biblioteca, la mia cantina, le mie amicizie, perché hai i numeri per essere il delfino”. Non ne ero così convinto e ci rimasi di stucco. Presi tempo, un paio di giorni, e ci pensai su. Il famoso treno che passa una volta sola. Era come se Pelé m’avesse invitato a fare qualche palleggio con lui al Maracanã. Eppure dissi no, grazie, ancora non me la sento. E con quell’ancora intendevo dire che erano gli anni di piombo e mi sarebbe parso di disertare l’attualità, avevo qualche convinzione sul giornalismo, illusione forse, e non mi vedevo a scrivere per tutta la vita di piatti e di vini. Veronelli la prese bene, era un signore vero, il rapporto continuò come prima, lui a chiedermi dell’Inter e io del kuz (uno stufato della Valcamonica), lui di Pantani e io del nettare d’Yquem, salvo incontrarci sull’amatissimo, da entrambi, Apollinaire».
• Sposato da 42 anni con Paola. Lei è allergica all’aglio («Non è che non lo digerisce, è proprio allergica»).
• «Parla come mangi, diceva mia nonna. Credo d’averla accontentata e a volte m’illudo di mangiare come parlo».
• «Mio nonno pastore di fronte a Guernica avrebbe detto che Picasso non sapeva dipingere».
• «Non so cucinare nemmeno due uova fritte».
Notizie tratte da: Gianni Mura Non c’è gusto. Tutto quello che dovresti sapere prima di scegliere un ristorante Minimum Fax Roma 2015, pp. 110, 13 euro.