Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2009
Quelli che fanno la Coccoina, quelli che fanno lo Stock 84
Brand. Il lessico manageriale impone di parlare di brand, con la conseguente, terribile, espressione “brandizzare il cliente”. Marchio è più bello, soprattutto se è storico e ci ha accompagnato per decenni nella vita di tutti i giorni. Ci sono marchi storici così forti che, di fatto, annullano la ragione sociale dell’azienda. E marchi un po’ impolverati che rischiano di frenare la crescita di prodotti innovativi. Prendi Balma & Capoduri, un nome che dice poco o niente al 99% del pubblico. È l’impresa di Voghera che dal 1927 produce la colla Coccoina, nella classica scatola di alluminio con, ancora oggi, il pennello di setole bionde di maiale. Un mito, con il suo inconfondibile profumo di mandorla, per generazioni di incollatori in casa, nelle scuole e sul posto di lavoro. E Balma & Capoduri è presente in tutti gli uffici con le pinzatrici Zenith, nella versione classica in acciaio, in quella più moderna con il cappuccio di plastica e nell’esclusiva “548 Gold” con parti dorate galvanicamente, riservata al top management e ambita dalle segretarie di direzione come concreto segno di distinzione nella variegata gerarchia aziendale.
Al contrario, dici Stock Spirits e ti viene in mente subito lo Stock 84 e le straordinarie reclame radiofoniche degli anni 60, quando al termine di “Tutto il calcio minuto per minuto” – trasmissione che paralizzava l’Italia, prima puntata il 10 gennaio 1960, con l’inconfondibile voce di Roberto Bortoluzzi – i radioascoltatori erano invitati a brindare con lo Stock 84 in caso di vittoria “della squadra del vostro cuore”, o a consolarsi, sempre con lo Stock, in caso di sconfitta. Un successo che si è appannato: oggi l’azienda triestina ha profondamente cambiato il suo portafoglio, tanto che realizza il grosso del fatturato con il Limoncè e con le vodka alla frutta Keglevich, con crescite a doppia cifra, apprezzate soprattutto dai giovani e alla base di molti cocktail alla moda. E il classico brandy ha più successo all’estero, soprattutto nei Paesi dell’Est: la sola Slovenia, due milioni di abitanti, assorbe più Stock 84 di tutta l’Italia.
QUELLI CHE FANNO LA COCCOINA
Destrina di fecola di patate, un pizzico di conservanti ad uso alimentare, un po’ di glicerina per assicurare la morbidezza, una goccia di fragranza di mandorle. E la Coccoina è fatta. Un impianto automatizzato e vecchie attenzioni: la colla viene messa a stagionare, come i migliori cru, per un mese nella classica scatola di alluminio prima di essere regolarmente esportata negli Stati Uniti, in Germania e Giappone. Nel corso di questi decenni l’offerta si è diversificata con l’aggiunta delle colle liquide e degli stick. Tutte a marchio Coccoina, anche se con diverse annate, come l’84 e l’89, ma nell’immaginario collettivo la scatoletta di alluminio resta inimitabile. Anche per merito delle pubblicità, la prima delle quali è andata in onda il 21 novembre 1930, trasmessa sulle stazioni radiofoniche di Torino, Milano e Genova: «Coccoina Coccoina, non è uno stupefacente, ma una colla solida che stupisce».
La mitica colla, però, è quasi un «incidente di percorso» visto che la Balma & Capoduri è, di fatto, un’azienda meccanica che realizza l’80% del fatturato, quasi 15 milioni di euro, con le classiche cucitrici da ufficio e le pinze levapunti in acciaio. Levapunti così richiesti che l’azienda è stata costretta a installare un sistema di robot che lavorano senza sosta. E il nuovo stabilimento nella periferia vogherese (dove nel marzo 2010 si trasferiranno anche gli uffici) è ricco di impianti automatizzati progettati e realizzati dall’officina interna, che sfornano a getto continuo, tra l’altro, fino a 70 milioni di punti metallici al giorno con le piccole accortezze tipiche di chi ha una storia alle spalle e che facilitano la vita di tutti i giorni: «I nostri punti derivano da un solo filo – spiega Aldo Balma, nipote del fondatore e amministratore delegato della società, da 30 anni in azienda – e questo ci permette di usare un collante leggero per tenerli uniti nelle scatolette prima e nelle pinzatrici poi. Gli altri concorrenti invece usano punti provenienti da più bobine che richiedono collanti più tenaci. E questo si traduce in sforzi maggiori nella cucitura».
Nella Balma & Capoduri c’è un continuo rimando tra storia e innovazione. Agli impianti automatizzati, per esempio, fanno da contrappeso le divise aziendali adottate ancora oggi: il presidente e i dirigenti vestono il camice bianco, le impiegate il grembiule azzurro, gli operai le tute blu.
L’azienda non ha sentito particolari contraccolpi dalla Grande crisi «anche perché – assicura il presidente Giorgio Balma, 85 anni, da 60 in azienda, anche lui in camice bianco – non abbiamo mai fatto il passo più lungo della gamba. Abbiamo voluto a tutti i costi assicurare la qualità dei nostri prodotti senza inutili scorciatoie. Anche in campo finanziario: qualche anno fa ci avevano proposto di fare ricorso ai derivati finanziari, ma niente da fare, erano cose troppo complesse. E quando una cosa è complicata, c’è qualcosa che non va».
I cinesi? «Al momento non ci fanno paura – risponde Balma junior – anche se hanno inondato il mercato con pinzatrici che costano un terzo delle nostre. Ma la domanda dei nostri prodotti non cala. E siamo orgogliosi di poter affermare che tutta la nostra produzione è rigorosamente italiana».
Balma senior in 60 anni di attività («nessuna intenzione di fermarmi, mi diverto ancora») ne ha viste di tutti i colori, ma si indigna ancora per due grandi temi di attualità: le banche e la formazione professionale. «Una volta – spiega – c’erano i direttori di filiale che avevano spesso la funzione di consulenti di impresa. Ora il rapporto si è fatto più impersonale. Non c’è più un interlocutore diretto, le decisioni vengono prese nella sede centrale, con scarsa autonomia nella periferia».
La formazione professionale, poi, fa acqua da tutte le parti: «I giovani hanno poca passione per la meccanica. E una preparazione professionale che vale ancora di meno. La formazione non risponde più alle esigenze del mondo del lavoro. Dobbiamo insegnare noi, poco alla volta, i mestieri direttamente in fabbrica».
QUELLI CHE FANNO LO STOCK 84
Da anni il settore è in continua contrazione, soprattutto per motivi salutistici. Ma studi di mercato avevano dimostrato che non c’era alcuna correlazione tra crisi economiche e consumi di superalcoolici. Questa volta non è stato così: «Alla fine del primo trimestre di quest’anno – spiega Claudio Riva, 49 anni, dal 2007 amministratore delegato del gruppo dopo aver iniziato la carriera alla Calsberg e poi alla Mars – c’è stata un’improvvisa e violenta contrazione degli ordini per il periodo estivo». I consumi fuori casa sono andati in tilt e le vendite nei supermercati hanno frenato bruscamente, anche se, ed è significativo, c’è stato un vero balzo nei discount.
È difficile dire come andrà a finire il 2009 perché il settore realizza il 40% del fatturato negli ultimi quattro mesi dell’anno, il 20% nel solo periodo di Natale.
Riva, comunque, non è pessimista: «Dovremmo chiudere l’anno con lo stesso fatturato 2008, circa 60 milioni di euro, ma con margini di redditività migliori grazie alla radicale ristrutturazione avviata a fine 2007».
Due anni fa, infatti, il gruppo triestino era in difficoltà: «Quando sono arrivato ho trovato un’azienda poco orientata al consumatore e con un elevato livello di complessità interna, con inevitabili costi molto alti».
È partito così un piano di riorganizzazione con l’obiettivo di migliorare il risultato aziendale: il 50% con il recupero di efficienza interna, il 50% con l’aumento delle vendite. L’azienda è stata rivoltata come un calzino. Le referenze commerciali sono state tagliate del 40%, puntando su pochi selezionati prodotti, come il Limoncè, leader con il 16% del mercato nazionale, e le vodke Keglevich, molto gettonate grazie a un’aggressiva politica commerciale. Il classico Stock 84, con il 20% del mercato dei brandy, sta approfittando della Grande Crisi per conquistare clienti che lasciano la fascia più alta, e costosa, del segmento. La rete commerciale è stata rafforzata «per essere più a contatto con i clienti finali». Clienti molto diversi tra di loro, visto che il 70% dei prodotti viene venduto attraverso la grande distribuzione, mentre il restante 30% è destinato al segmento che i tecnici del settore definiscono Horeca, sintesi di hotel, restaurant e catering.
Ma, soprattutto, Riva ha preso una decisione che ha cambiato il corso della storia dell’azienda triestina: spostare l’area commerciale a Milano, «un passo fondamentale per i contatti e i servizi ai clienti». Un vero e proprio trauma per la città giuliana, abituata ad avere la Stock sotto casa dal 1884, anche se di fatto in pochissimi hanno accettato di spostarsi nel capoluogo lombardo, preferendo un accompagnamento graduale alla pensione. Con il risultato che adesso l’età media dei dipendenti si è notevolmente abbassata.
«Abbiamo trasferito parte dell’azienda a Milano, però abbiamo investito nello stabilimento di Trieste per ammodernare gli impianti. E rilanciato la pubblicità. Una cosa è certa: dopo aver fatto la ristrutturazione con questi tempi pazzeschi, impensabili per un’azienda ultracentenaria, ora possiamo guardare con relativo ottimismo all’andamento dei consumi».
Nel settembre 2005 l’azienda triestino-milanese è stata rilevata dal gruppo americano Oaktree capital management, che in quegli anni, periodo d’oro per i grandi fondi di investimento, ha scommesso molto sull’Italia: Oaktree, infatti, ha rilevato anche i gelati Roncadin (gruppo Arena), pagati 152 milioni, e nel settembre 2007 la Conbipel di Cocconato d’Asti, l’azienda di moda della famiglia Massa, valutata, si dice, 200 milioni. Resta top secret, invece, il valore dell’operazione Stock.
«Facciamo parte di un gruppo internazionale – assicura l’amministratore delegato del gruppo – ma abbiamo una grande autonomia gestionale che ci permette di prendere decisioni veloci».
Stock Spirits controlla una serie di società commerciali, soprattutto nei Paesi dell’Est Europa, ma tutta la produzione è made in Italy. La vecchia Stock, in realtà, aveva stabilimenti in Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Jugoslavia, tutti nazionalizzati dai regimi comunisti dopo la Seconda guerra mondiale. Uno shock, per il vecchio Lionello Stock, che era stato costretto a concentrare la sua produzione in Italia. E così è rimasto.
«In sostanza siamo cambiati radicalmente – conclude Riva – per poter continuare una storia italiana molto, molto affascinante».