Corriere della Sera, 31 luglio 2005
L’inventore dell’antiAntifascismo
Quintessenza della rissosità che nel secolo scorso ha caratterizzato non pochi intellettuali, Leo Longanesi è nato giusto cent’anni orsono a Bagnacavallo, nel Ravennate, romagnolo come Pascoli, Oriani e Mussolini. Perennemente all’opposizione per partito preso, se durante il Ventennio pretende di essere la coscienza critica del Regime, nel dopoguerra agiterà la bandiera dell’anti-Antifascismo, inarrivabile portavoce della maggioranza degli Italiani che piangono la morte della Patria.
Come un tarlo, lo scetticismo della sua intelligenza superlativa sembrerebbe averne corroso innanzitutto la fibra. Uscito presto di scena, stroncato da un infarto nel 1957 ("Sulla mia tomba scrivete l’epigrafe: Torno subito “), i conti con lui sono stati fatti più volte chiedendogli però troppo spesso di essere ciò che non era con l’intento di ridimensionarne la scomoda protervia mentre avrebbe dato il meglio di sé dietro le quinte, organizzatore di cultura e maestro di giornalismo, ambito nel quale ha profuso doti illimitate di inventiva.
Ciò che non basta, comunque, a garantirgli un posto del rilievo che invece merita.
Intellettuale tutt’altro che “organico”, nemico di ogni ideologia e dei “palombari del pensiero”, il suo impegno è rivolto in primo luogo all’identità italiana, così ardua nel secolo breve segnato da due guerre mondiali fra cui pesa la catastrofe del 1929. E intanto la sua inclinazione strapaesana oggi va rimpianta. Provinciale allergico al dialetto, ama la Padania senza escludere il Meridione, entusiasta della creatività e della teatralità di Napoli, dove ripara dopo l’8 settembre, schivando tanto Salò quanto la Resistenza, in compagnia di Steno e di Soldati: “Il povero napoletano non chiede l’elemosina, la suggerisce “. Resta perciò lontano dallo stereotipo di “Roma ladrona”; anzi la capitale lassista (dove si trasferisce nel 1932) risulta per lui vittoriosa nel confronto con l’industre Milano, la sua ultima postazione: “Milano crede di essere Milano, Roma sa di essere Roma”.
Consumata la giovinezza nella Bologna di Missiroli e dell’anarchico Arpinati, gerarca poi caduto in disgrazia, l’apprendistato nelle colonne dell’"Assalto”, settimanale di punta del fascismo locale, lo segnala a Mussolini che lo arruola, stimandolo e temendolo, come capofila nella fabbrica del consenso. Solo che Longanesi non è arruolabile, magari anche al di là delle intenzioni. Il suo proposito di modernizzare la propaganda e di far coincidere la retorica con il buon gusto lo induce infatti a fabbricare con la carta stampata terroristici ordigni esplosivi che la censura dovrà via via disinnescare.
Con i sodali della prim’ora ("Cerco amici da consumare": Maccari, Soffici, Malaparte, Cardarelli...) ha condiviso il trasporto per Bakunin e Sorel, Darwin e Gobineau, e un’idea di Italia povera e antica da conservare elaborando antidoti su antidoti per preservarla da una modernità rovinosa. Delfini e Pannunzio, Berto e Flaiano, e Benedetti, Montanelli, Biagi, Parise, Bianciardi, Vittorini, Zavattini... da Longanesi imparano tutto e con lui conquistano un territorio di fronda anche scavalcandolo. Molti hanno del resto contratto debiti ingenti con l’infallibile maieutica longanesiana.
Grazie a una lapidaria sentenza – “Lei è un Gogol di provincia” – Vitaliano Brancati abbandona l’epica per la satira, il suo registro meglio risolto; mentre giova ad Alberto Moravia la dispotica manomissione che un giorno si chiamerà editing. Leo Longanesi ne riscrive i racconti partendo dalla fine: “Come la stoffa inglese rivelano la qualità quando vengono rovesciati”. Nell’"Italiano”, quindicinale e poi mensile fondato nel 1926 (esce, spesso irregolarmente, fino al 1942), l’"enfant terrible” e “gâté” del Regime denuncia numero dopo numero la rivoluzione mancata. Il “fascismo puzza di cadavere” e la stupidità dilaga. Inventa la foto-aneddoto, che parla da sola nel blob a monte del Neorealismo nato tra le pieghe del Ministero per la cultura popolare. Tra due bocche di cannone, compare così il 20 settembre 1930 il volto minaccioso di Hitler con la didascalia: “Sarà questa la nuova politica della Germania?”. Quanto a tempismo Longanesi non è appunto secondo a nessuno. Trovata nel 1937 con “Omnibus”, per l’editore Rizzoli, la formula del rotocalco, settimanale illustrato che all’Italia mancava (il titolo è di Mussolini in persona), non sorprende che il servizio sulla guerra di Spagna (12 giugno 1937) consista in una grande fotografia delle macerie di Guernica che un cane mogio attraversa per colmo di desolazione.
il pacifismo “disfattista” del magazine a determinarne la chiusura, dopo appena due anni, nel gennaio 1939, e non la pretestuosa irriverenza di Savinio, fra i più assidui collaboratori, nel commemorare il primo centenario della morte di Leopardi con un articolo sulla micidiale “cacarella” del poeta golosissimo di sorbetti. Da allora Longanesi figura come” vitando” nei documenti della segreteria di Starace. Ma la sua preoccupante profezia – “Se gli Americani fanno la guerra come fanno “Life”, vinceranno di certo” – lo rimette in gioco, a fianco di Giovanni Ansaldo nell’impresa di “Fronte”, rotocalco per i soldati. Il montaggio delle fotografie smaschera la follia della guerra che porta alla rovina Mussolini, ovvero l’omazz,secondo l’ultimo epiteto longanesiano, tanto affettivo quanto aggressivo.
Proprio nell’ora della disfatta si dedica al cinema come regista: Dieci minuti di vita che il precipitare degli eventi gli impedisce di concludere. Alle spalle ha tuttavia una lunga vicenda di soggettista (ancora da scoprire), né poteva essere altrimenti visto che se l’obiettivo fotografico è a suo avviso il “nuovo Plutarco”, il cinema “ha compiuto una rivoluzione sociale superiore a quella di Lenin”. Accanto a Morandi e a Maccari, Longanesi ha coltivato l’arte del disegno. L’attitudine caricaturale affiora persino nella cartellonistica pubblicitaria che sigla mirando all’eleganza grafica. Se non la realizzazione, è sua l’iperbole del cane a sei zampe, emblema della Supercortomaggiore, viatico, nel dopoguerra, dell’intesa con Mattei per il quale elabora la formula del “Giorno” quando constata che “Oggi”, “Tempo” o “Il Mondo”, come poi “L’Espresso”, gli devono il formato e le rubriche, l’uso delle immagini e i temi delle inchieste.
Fondata nel 1946, a Milano, con il sostegno di Mario Monti, la Casa Editrice Longanesi & C. per tenersi fuori dalla lotta politica e inaugurare un revisionismo troppo in anticipo sui tempi, le elezioni del ’48 lo vedranno in prima linea nel sostegno di De Gasperi: solo a lui risale il monito “turarsi il naso e votare DC” che altri ha divulgato. Nel ’50 è infine di turno il “Borghese”, quindicinale al quale consegna le sue ultime delusioni di nostalgico non del Fascismo ma della propria giovinezza. E il bersaglio sono stavolta la nuova classe dirigente spoglia di valori, opportunismo e consumismo ("Una vita spesa a far la spesa") senza escludere se stesso. Basso di statura, si era definito “carciofino sott’odio”; ora dice autoironico e irresistibile: “La mia fantasia si è inceppata: ho bisogno di un piccolo dispiacere”, “Non bisogna fidarsi di me: ho molto sofferto”, Mangio merda tutti i giorni, ma guai se ci trovo un capello dentro”.