la Repubblica, 24 luglio 2015
L’illusione tedesca. La Germania che credeva di «aver fatto pace con se stessa e col mondo» si è ritrovata a 25 anni di distanza dalla sua riunificazione sul banco degli imputati, in un’Europa preda di una preoccupante sindrome antitedesca. Il vero pericolo non è la politica dei suoi leader ma l’ostilità che genera
La Germania è la croce della moderna storia europea: un mistero, un enigma, una sfinge politica. Da più di un secolo a mezzo attorno ad essa si affollano perplessità, interrogativi, sospetti. Insomma prima ancora che über alles questo paese è per gli altri popoli del Vecchio Continente un dubbio eterno. È così anche oggi, come si è visto durante le convulse giornate della crisi greca: la Germania che si era illusa di “aver fatto pace con se stessa e col mondo” si è ritrovata a 25 anni di distanza dalla sua riunificazione sul
banco degli imputati. E l’Europa preda di una preoccupante sindrome antitedesca. Un diffuso timore agita l’opinione pubblica: che la Germania provi a trasformare una storica ossessione per il rigore finanziario e la stabilità monetaria in costituzione materiale dell’area dell’euro per imporre agli altri popoli la sua visione di economia e di società. La Germania avrebbe tenuto a battesimo una moneta unica a sua immagine e somiglianza: al fine di assicurarsi un cospicuo vantaggio finanziario e uno strumento di ricatto politico. C’è poi chi, invece, sostiene una tesi opposta. In questione non è più l’euro ma l’intenzione coltivata in segreto di abbandonare la moneta comune per tornare al marco, moneta amatissima e rimpianta.
Questo atteggiamento contraddittorio conferma che gli europei non sanno decidersi se aver paura del dominio tedesco o temere di essere abbandonati dalla Germania. Puntualmente poi quando una crisi vera scuote gli equilibri europei, storici e politologi annunciano in modo allarmistico il pericolo del ritorno della deutsche Frage, della “questione tedesca”: una Germania di nuovo “potenza del centro” come ai tempi di Bismarck. Secondo una convinzione molto diffusa la Germania non amerebbe l’Europa perché è a Oriente che guardano il suo spirito e la sua economia: a Mosca più che a Parigi. (Salvo poi criticare, come è accaduto proprio nelle ultime settimane, la durezza giudicata eccessiva e “troppo tedesca” delle sanzioni contro l’espansionismo “euroasiatico” di Putin).
Eppure è proprio questa stessa criticatissima Germania che solo fino a qualche settimana or sono era il paese più cool d’Europa. Persino gli inglesi la pensano così. La prova? La decisione del British Museum di dedicare alla “nuova Germania” una mostra che è già storia. E un’inchiesta della Bbc condotta in ben 25 paesi secondo la quale la Germania sarebbe da preferire per vivere e lavorare rispetto al Canada, alla Francia e alla stessa Inghilterra. Insomma tutto un parlare del Modell Deutschland: di una Germania modello di Stato sociale, di prosperità economica e di stabilità politica. I punti di forza? L’economia sociale di mercato e la Sozialpartnerschaft (il partenariato sociale e il potere di co-decisione del sindacato in azienda), il federalismo solidale, la divisione dei poteri rigidamente osservata e gelosamente difesa. Un Parlamento formato da responsabili partiti di massa e una Corte costituzionale unanimemente rispettata, garanzia della difesa del diritto dalla prevaricazione del potere politico.
La Germania ha oggi (come del resto già nell’Ottocento) in Europa il maggior numero di teatri ma anche il miglior sistema educativo del Vecchio Continente. Una vivacissima vita culturale e alcune tra le migliori università europee. Un paese estremamente tollerante e aperto che può vantare la riuscita integrazione di immigrati provenienti da decine di paesi del mondo. La nazione che si era pervicacemente arroccata (con esiti catastrofici) sull’idea etnocentrica della cittadinanza (jus sanguinis) è oggi un paese in cui si è cittadini per nascita (ius soli). Com’è possibile che i giovani dei paesi del Sud d’Europa e gli immigrati del Sud del Mediterraneo sognino la Germania mentre questo stesso paese è oggetto di una violentissima polemica e messo sotto accusa dai media di mezza Europa?
La prima spiegazione suona davvero paradossale: gli europei non conoscono affatto o solo in modo molto superficiale la Germania. La ragione? La grande difficoltà della lingua tedesca. Il mondo, ha commentato il Financial Times, vede la Germania e i tedeschi “come vuole”, non come sono. Non sa quello che veramente i tedeschi oggi pensano, dicono, discutono. C’è, dunque, nel cuore d’Europa una sorta di “buco nero” comunicativo che è all’origine di un sistematico fraintendimento che ha provocato e provoca continui malintesi ed equivoci. Non solo semantici e culturali ma anche politici. Un esempio? Tutti parlano dell’austerità tedesca: ma nella lingua tedesca questa parola non esiste. Il termine è stato, per così dire, importato dal mondo anglosassone sulla scia delle polemiche rivolte alla “teologia economica” conservatrice, o come tale giudicata, della Germa- nia. Nessun politico tedesco (salvo forse qualcuno della Linke) parla di austerità e quando questo termine ricorre nei media è sempre tra virgolette o relativizzato dall’aggettivo “cosiddetta”. Il termine tedesco di Sparsamkeit (parsimoniosità) non è polemicamente connotato come lo è invece quello di austerity e ha semmai un significato analogo a quello che il termine austerità aveva una volta in italiano, ad esempio quando venne usato da Enrico Berlinguer.
Chissà quanti sono oggi consapevoli che l’antikeyenesimo di Schäuble ferocemente irriso da Paul Krugman ha il suo riferimento teorico in quella scuola “ordo-liberale” che è stata uno dei momenti più rilevanti della riflessione tedesca sulle cause della catastrofe degli anni Trenta? Si dice che i tedeschi siano incapaci di “fare politica” limitandosi a una puntigliosa insistenza sul rispetto delle regole e dei principi del diritto. È vero: a Berlino sono oggi programmaticamente anti- schmittiani perché sanno a quali terribili esiti abbia portato il cosiddetto primato della politica sul diritto. Nessuno ha dimenticato in Germania l’infame articolo scritto nel 1934 da Carl Schmitt dopo la ‘notte dei lunghi coltelli’ intitolato: «Il Führer difende il diritto». E poi: se non il diritto e il rispetto degli accordi cosa dovrebbe tenere in piedi e far funzionare dei trattati internazionali?
Insomma è oggi legittimo sostenere che esiste una “questione tedesca” ma in un senso completamente differente da quello che storicamente questa espressione ha significato. Intanto per il semplice motivo che la storia non ritorna mai sui suoi passi. E quello che polemicamente viene presentato come l’”eterno ritorno dell’identico” ( il volto della Merkel con i baffi alla Hitler) in realtà è solo un escamotage per evitare, come avrebbe detto Hegel, la “fatica del concetto”, cioè fare i conti con la realtà.
Ma la vera ragione è un’altra. C’è, infatti, una sfasatura nel discorso europeista che rischia di rivelarsi fatale: ha osservato Gustav Seibt sulla Süddeutsche Zeitung che «in Germania si parla d’Europa. Negli altri paesi si discute di Germania». Questo è oggi il problema. Ma occorre anche che gli europei prendano atto che non esiste un’Europa senza e contro la Germania: davvero pensiamo possibili velleitarie alleanze mediterranee in funzione antitedesca? O addirittura possibile contrapporre “il pensiero meridiano allo spirito protestante del capitalismo” che l’europeismo ha, invece, sognato di far dialogare? La Germania, almeno la maggior parte della sua classe dirigente (qua e la c’è qualche neo-guglielmino) sa di non aver un futuro senza e contro l’Europa. Per questo non ha più senso continuare a contrapporre, come comprensibilmente fece Thomas Mann nel secondo dopoguerra, una Europa germanica a una Germania europea. Anzi: se osserviamo con attenzione quanto oggi succede nei paesi europei (Francia e Italia per primi) dovremmo con qualche inquietudine temere che in futuro potremmo assistere a un paradossale rovesciamento dei ruoli: a un’Europa con al suo centro una Germania europeista e proprio per questo circondata da un sentimento di ostilità e diffidenza degli altri paesi.