la Repubblica, 24 luglio 2015
Viaggio a Kogelo, nel paese natale del padre di Obama. Neanche uno striscione di «Bentornato a casa». L’uomo più illustre della Terra è atteso oggi in Kenya per la sua prima visita da presidente degli Stati Uniti, ma potrebbe non arrivare fino a qui per rendere omaggio alla terra dei suoi avi. Alle quattromila anime del villaggio, metà delle quali giura di essere imparentate con lui, non resta che sperare nel miracolo. Ma molti sono scettici: «Avevamo sperato che tornasse in fretta per festeggiare la sua elezione assieme a noi. Non vedendolo arrivare molti di noi hanno avuto l’impressione che si vergognasse delle sue radici»
Kogelo è un villaggio così malconcio, quello che diede i natali al padre del presidente Barack Obama, da non avere nemmeno un cartello toponomastico. Al suo ingresso, il nome è stato scritto con la vernice sul muro di una casa diroccata. A Kogelo non c’è neanche uno striscione che auguri il benvenuto al primo presidente afroamericano della storia, anzi, un «bentornato a casa», come accadde durante la sua visita del 2006, quand’era ancora senatore. Da allora, ossia da quando realizzarono che il figlio di uno di loro sarebbe potuto diventare l’uomo più potente del mondo, i contadini di Kogelo hanno scaramanticamente battezzato ogni cosa con il suo cognome: le strade, le scuole, la locale squadretta di rugby, i bambini, le galline, le mucche lillipuziane o le capre ciclopiche che brucano brade tra i campi di mais e di miglio attorno a Kogelo. E a forza di pronunciare le tre sillabe, “Obama” è come diventato un mantra in questo piccolo borgo a una quarantina di chilometri dalle acque limacciose del lago Vittoria e a circa trecento da Nairobi.
Ora, la mancanza di un degno comitato di accoglienza è probabilmente dovuta al fatto che Obama, atteso oggi in Kenya per la sua prima visita da presidente degli Stati Uniti, stavolta potrebbe non allungare il viaggio fino a qui per rendere omaggio alla terra dei suoi avi. Le quattromila anime di Kogelo, metà delle quali giura di essere imparentate con il presidente, temono quest’eventualità, ma fanno finta di niente e continuano a sperare in un miracolo. A confermare la ferale ipotesi di una sua non venuta, c’è quanto sostiene il capitano John Agada alla nuova stazione di polizia: «Non abbiamo ricevuto nessun ordine dalle autorità centrali, né sono venuti in perlustrazione gli uomini del suo staff come accadde 9 anni fa. Magari sono così bravi da organizzare tutto in poche ore. Staremo a vedere. Ma le assicuro che anche se per le strade del villaggio non vede cartelli inneggianti a Obama, ogni abitante si sta preparando spiritualmente alla visita del nostro eroe».
Ma è davvero l’eroe di Kogelo, Obama? Certo, oltre a far aprire la stazione di polizia (con una piccola succursale all’interno della fattoria di sua nonna Sarah), il presidente americano ha pagato di tasca sua affinché nel villaggio arrivasse finalmente l’elettricità in ogni casa e fosse asfaltata la strada che porta al capoluogo Kisumu. «È un uomo bello, ricco e potente che vive in America e che è diventato il re del mondo», ci dice un suo giovane omonimo, 8 anni, con la maglietta strappata e un cappellino dei Giants in testa. «Prima che arrivasse qui eravamo gente poverissima. Adesso, grazie a lui, anche se non siamo diventati ricchi, non siamo più nel bisogno come una volta. Quanto a me, Obama è l’esempio di serietà e di riuscita al quale ho deciso di ispirarmi. Perciò quando sarò grande mi iscriverò all’università e diventerò dottore».
Il falegname Alloys Damari, seduto su un solenne divano da lui appena fabbricato, non la pensa come il piccolo Obama. Dice: «Quando nel 2008 vinse le prime presidenziali, la gente del villaggio pianse dall’emozione. Eravamo così orgogliosi di lui e del suo sangue keniano. Sentivamo che la sua vittoria era anche un po’ la nostra. E ci piaceva l’idea che dalla Casa Bianca, tra le sue infinite occupazioni, lui trovasse il tempo e la voglia di amministrare anche Kogelo. Per quello appena nasceva un figlio gli mettevamo nome Obama. Ma con il passare del tempo non abbiamo visto grandi progressi e per essere sincero, da lui, da un figlio di questa terra, mi aspettavo molto di più. Eppure una delle canzoni swahili che tutti canticchiano recita così: “Huenda akawa Obama” che significa “Ti auguro di diventare Obama”».
Anche Frank Thaku, infermiere che incontriamo nel piccolo ristorante accanto alla Senator Obama primary school la pensa come il falegname. Frank non vuole neanche prendere in considerazione l’eventualità che domani il presidente decida di non si affacciarsi a Kogelo per riabbracciare la nonna novantaquattrenne. «Lo sa che nella nostra contea il 18 per cento della popolazione è sieropositiva? I farmaci contro l’Hiv costano molto cari e spesso scarseggiano all’ospedale regionale. Ora quando s’interrompe la terapia il virus si riaffaccia più aggressivo di prima e in molti casi si rivela fatale per molti pazienti. Da anni chiediamo fondi a tutti Paesi ricchi e, in particolare, agli Stati Uniti. Ma non è arrivato un solo centesimo. Non le sembra uno scandalo?».
Alcuni abitanti di Kogelo rinfacciano al presidente di non essere più venuto dal lontano 2006. «Avevamo sperato che tornasse in fretta per festeggiare la sua elezione assieme a noi. Non vedendolo arrivare molti di noi hanno avuto l’impressione che si vergognasse delle sue radici. Noi pensavamo che si sarebbe subito presentato qui da noi con delle soluzioni per risolvere gli enormi problemi che ci affliggono. Ma lo stiamo ancora aspettando. Al suo posto sono invece arrivate comitive di turisti alla ricerca delle radici del presidente. Ma per la maggior parte è gente che neanche si ferma a parlare con noi del luogo. Scende del torpedone, scatta qualche foto e fila via».
La strada asfaltata e l’arrivo elettricità hanno modificato l’aspetto urbanistico di Kogelo facendo aumentare, per esempio, il numero di piccoli spacci e chioschetti che vendono di tutto, dalle tessere telefoniche ai bottoni, dalle taniche di plastiche agli infradito made in China. La sola cosa che negli ultimi anni è molto diminuita, ci spiega l’infermiere, è il numero delle casette di pietra e fango con il tetto di paglia sostituite da costruzioni di legno ricoperte di lamiera.
Mercy Kanieky possiede un negozietto dove vende abiti usati. «Ma perché strapparsi i capelli per la possibile visita di una persona importante come il presidente americano che ha ben altro a cui pensare? E che cosa s’immaginavano i miei concittadini di Kogelo, che lui li avrebbe coperti d’oro solo perché quell’alcolizzato di suo padre, Barack Obama senior, era nato in questa miseria? Le dirò: per me Obama è un soltanto un marchio. Qualche mese fa ho anche investito in questo brand facendo stampare il suo bel volto sorridente su una cinquantina di t-shirt. Le ho vendute tutte in pochi giorni».