La Stampa, 24 luglio 2015
L’ultimo giorno in Parlamento di Enrico Letta. Da oggi sono effettive le dimissioni di quello che è stato definito il ragazzo più vegliardo della sua generazione e che lascia la Camera dei deputati per andare a dirigere la Scuola di affari internazionali all’Università SciencesPo di Parigi. La serata si è chiusa con la fila a salutare il dimissionario
Siccome la retorica è merce non sempre dozzinale, ieri ne è stata distribuita molta, e giustamente, in celebrazione di un parlamentare che è stato a 32 anni il ministro più giovane della Repubblica (poi battuto) e il penultimo presidente del Consiglio: Enrico Letta. Un uomo che è stato definito il ragazzo più vegliardo della sua generazione e che lascia la Camera dei deputati – dov’era entrato nel 2001 – per andare a dirigere la Scuola di affari internazionali all’Università SciencesPo di Parigi. L’incompatibilità sarebbe sfuggita a molti, anche in ragione del corposo stipendio da deputato, ma non a lui. È sfuggita per esempio ai monelli del Movimento cinque stelle che ieri sera (dopo avere tenuto bloccata l’aula per l’intero pomeriggio su una fiducia dal governo già ottenuta, e la ribloccheranno oggi in nome di un ostruzionismo che stavolta pare più un simpatico dispettuccio) non hanno concesso al vecchio rivale l’onore delle armi, arte che spesso si impara a età più avanzate. Pazienza. In fondo, più delle asprezze del compiaciuto Alessandro Di Battista, l’oratore grillino, si è sentito il clangore del nuovo capogruppo del Pd, Ettore Rosato, che nell’ilarità generale ha ricordato la compattezza e la lealtà del partito quando Letta era a Palazzo Chigi. E la friabilità è in politica colpa molto più rimarchevole del cinismo.
Fa niente. In fondo avevamo aspettato tutte quelle ore per sentire l’ultimo discorso a Montecitorio di un politico che ha fatto la piccola storia recente di questo Paese, e sapendo che non sarebbe stato un esercizio di tardiva rivincita. Letta ha piuttosto ricordato che la politica è una malattia da lui contratta a nemmeno dodici anni, quando nel 1978 i genitori lo condussero in pellegrinaggio a via Fani, dove Aldo Moro era stato sequestrato dalle Brigate rosse e la sua scorta sterminata. Era, appunto, il momento della retorica che certe volte è sacrosanta. Il Parlamento è stato salutato come «espressione massima della sovranità del popolo» che merita dedizione esclusiva; insegnerà con gusto in un momento in cui la politica vive di «tutto e subito» (unico nemmeno tanto vago riferimento al renzismo); lì si batterà «per una politica diversa, migliore, degna della fiducia dei cittadini che lavorano, faticano e meritano di vedere le loro aspettative realizzate»; per un’Europa che non sia «sovrastata dagli egoismi nazionali, senza vergogna, giudizio che non riesce a provare umana compassione per gli ultimi della Terra, i profughi e i disperati del Mediterraneo»; «grazie dunque per il sostegno che ho ricevuto e anche, sì, per le critiche che ho subìto. A molte di esse ho ripensato in questi ultimi tempi. Oggi le guardo con occhi più attenti. Perché tutte queste vicende, quelle positive e quelle negative, mi hanno cambiato nel profondo. Mi hanno insegnato tanto».
Il resto è stato un omaggio zuccheroso, come detto, ma inevitabile. Da Renato Brunetta (capogruppo di Forza Italia che ha votato no alle dimissioni in nome di una verità, quella dell’avvicendamento con Renzi, non ancora raccontata) ad Arturo Scotto di Sel, si sono sentite cose come «cervello in fuga», «erede migliore del cattolicesimo democratico», «protagonista assoluto» che «ha tolto la maglia del club per indossare quella della nazionale», «personalità di rilievo», un elenco di elogi che avrà fatto venire a Letta il brivido del necrologio in vita. La serata si è chiusa con la fila a salutare il dimissionario: da segnalare la commozione di Pierluigi Bersani che non è riuscito a spiccicare parola, il selfie di un deputato sconosciuto e, autentico capolavoro, l’autografo chiesto all’ex rivale da Rocco Palese di Forza Italia.